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Torino, estate 2021
Nessun giornalista è stato amico del giocatore e presidente calcistico bianconero Giampiero Boniperti quanto il granata che scrive queste righe, dolentissimo tributo allo scomparso ma anche reportage dentro una “zona” particolare del grandissimo personaggio, per sfortuna nostra assolutamente irripetibile e irriproducibile, con questi chiari di luna ed eclissi di sole dei comportamenti umani, nel mondo del pallone e direi anche nel mondo dello sport tout court.
L’amicizia, vissuta per oltre sessant’anni senza una screpolatura, è nata da una non-intervista (e mai ci fu poi l’intervista vera) del giovane giornalistucolo al già grande campione, anche di legittima diffidenza, si è sviluppata per tanto tempo da balcone a balcone di due alloggi che si fronteggiavano nel cortile di una casa torinese, si è consolidata tra risse da stadio e cose nostre, calcio spesso livido ed allegrie sempre colorate, rivalità da derby due volte l’anno e affetto da amici per tutti gli altri giorni. I suoi tre figli e due dei miei tre sono stati portati alla luce dallo stesso ginecologo, per uno Giampiero ha scelto il mio nome di battesimo, Giampaolo, se con la emme o con la enne non lo si saprà mai, anche per questo mi sono trasferito nel GPO di battaglia.
Potrei scrivere su questa amicizia un libro, ma direbbero che scrivo favole. E allora faccio il giornalista classico e mi do allo scoop, cioè rivelo che Giampiero amava sì la Juventus ma voleva bene al Torino
Potrei scrivere su questa amicizia un libro (quello firmato da lui è stato messo in prosa ed edito da me, Cara Juventus, il suo poetare bianconero), ma direbbero che scrivo favole. E allora faccio il giornalista classico e mi do allo scoop, cioè rivelo che Giampiero amava sì la Juventus di un amore furioso ed esclusivo, ma voleva bene al Torino, e non era uno che regalasse il bene facilmente.
Tante volte mi ha ricordato, la sua battaglia fisica per le vie di Torino contro il “trio Nizza” Bacigalupo-Rigamonti-Martelli, dopo un derby della malora, e di come da lì nacque un’eretica profonda amicizia. Nel suo frequentare in campo e poi ingaggiare in ufficio i più grandi calciatori del mondo, non mancò mai di dire che il più utile e dunque grande di tutti si chiamava Valentino Mazzola: quello che in un derby gli aveva stoppato sulla linea, col tacco, un suo ormai gol, e lui Giampiero tonava indietro sacramentando, pochi passi, alzava la testa e il capitano del Grande Torino era laggiù, lontano, a far gol alla Juventus. Ritrovò un bel pezzetto di Valentino in Giorgio Ferrini, e me lo disse cento volte.
Credo che mi abbia propiziato la conoscenza di Gianni Agnelli, il suo papà e Papa bianconero, perché insieme noi due si parlasse del Grande Torino (oltre che per liberarsi, dirottandolo su di me, di qualche trillo antelucano del Capo di ogni possibile Capo). Essì, anche l’Avvocato voleva bene a quei morti. Riferii a Giampiero che Gianni Agnelli era stato contento che un granatissimo come me ricordasse con riconoscenza di quando, anno 1951, il re repubblicano aveva regalato alla sua città un incontro di boxe tra Sugar Ray Robinson, il supercampione, e un bravo belga da gonfiare di pugni, e lo aveva voluto al Filadelfia, il cuore calcistico più intenso.
A proposito, l’Avvocato gli rinfacciava, per farlo arrabbicchiare, il non acquisto di Maradona e le perplessità su Platini, lui Giampiero mai reagì, ricordando che il re voleva assolutamente alla Juve Francescoli, per un ghiribizzo suo da sovrano presunto esperto e quasi onnipotente.
Mai abbiamo visto un derby insieme. Penso che Giampiero temesse di mostrarmi venuzze di sangue granata senza che io gliene mostrassi eguali di sangue bianconero.