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Sentenze bianconere

di Darwin Pastorin

La Juventus e i miei portieri

Torino, autunno 2019

Ho sempre avuto una profonda ammirazione, anche letteraria, per i portieri. Gli ‘altri’ del football, quelli che possono usare le mani, che pagano, spesso, per colpe non loro, come racconta, perfettamente, Eduardo Galeano. Da ragazzo giocavo da centravanti, cercando di imitare i gol, le rovesciate e i dribbling del mio idolo Pietro Anastasi, ma era l’estremo difensore, titolare o riserva, a conquistare la mia passione: allo stadio, in occasione della raccolta delle figurine Panini o nelle partitelle in corridoio, quando mamma e papà erano fuori casa, con mio fratello Fabrizio e la mia sorellina Liana. In porta hanno giocato Albert Camus («Tutto quello che so della vita, l’ho imparato dal calcio»), Vladimir Nabokov, Evgenij Evtušenko ed Ernesto Che Guevara. Di numeri 1 hanno scritto, tra i tanti, Osvaldo Soriano, Peter Handke, Jorge Amado, Primo Levi e persino Cesare Pavese, come leggiamo nel racconto giovanile ‘L’acqua del Po’: «Il mestiere del portiere sviluppa le attitudini meditative. Si vede il mondo arrabattarsi davanti e si fa niente. Qualche volta ti para un colpo dell’avversa fortuna».

Ho sempre avuto una profonda ammirazione, anche letteraria, per i portieri. Gli ‘altri’ del football, quelli che possono usare le mani, che pagano, spesso, per colpe non loro, come racconta, perfettamente, Eduardo Galeano

E come dimenticare «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non vedere l’amara luce» di Umberto Saba? Appena arrivato dal Brasile in Italia, a Torino, nel 1961, avevo sei anni, la Juventus conquistava il suo dodicesimo scudetto. La Juve di Boniperti, Sivori, Charles e Nicole, ma anche di Giuseppe Vavassori, Carletto Mattrel e Giovanni Romano, le ‘aquile solitarie’. Nella stagione successiva, ecco arrivare Roberto Anzolin, il caminitiano ‘piccolo angelo’: elegante, sicuro, volava da un palo all’altro. Era uno dei miei beniamini. Gli faceva da secondo ‘Penna Bianca’ Angelo Colombo. Ma al campo ‘Combi’ seguivo anche le prodezze dei giovani Fioravanti e Ferioli. Già, le riserve: a quei tempi non giocavano (quasi) mai. Vedi Massimo Piloni, dodicesimo per antonomasia, l’ombra dell’immenso Dino Zoff, ‘mundial’ nel 1982 in Spagna, uno dei calciatori più forti di sempre: la vicenda di Piloni è finita addirittura a teatro, grazie all’attore, cresciuto alla scuola di Dario Fo, Matteo Belli.

Sfoglio le pagine dei ricordi: ritrovo Alessandrelli, Carmignani, Bodini, sino all’epopea di Stefano Tacconi, bravo ed esuberante, il ‘Capitan Fracassa’ uscito dalla penna poetica di Vladimiro Caminiti, mio maestro di giornalismo. E poi Peruzzi e Rampulla, per giungere ai lunghi campionati di successi e miracoli, di mito ed epica, di Gianluigi Buffon, il mio amico Gigi. Come Zoff, campione del mondo: nel 2006 a Berlino. Gli devo una splendida introduzione al mio libro Einaudi ‘I portieri del sogno’. Scrive, in una specie di disamina filosofica e sentimentale del ruolo: «Il portiere, non c’è niente da fare, è un predestinato… portiere lo sei… non lo diventi… portiere lo sei dentro… lo sei nella vita quotidiana… lo sei fra i banchi di scuola… in mezzo agli amici. Il portiere è una figura che agli occhi degli altri è coraggiosa, impavida, matterella, carismatica e forse anche un po’ immatura». Oggi Buffon fa il ‘dodicesimo’ del polacco Wojciech Szczęsny: è lui il titolare, è il suo tempo, sono i suoi giorni. La Juventus è, indubbiamente, in buone mani. In buonissime mani.