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Torino, Primavera 2024
Se Torino fosse in Inghilterra, come per certi versi cerca talora di essere (si pensi al residuo culto sabaudo, con rigurgito recente coinvolgente anche Superga, sì Superga cosa e casa nostra granata), il Toro sarebbe il Tottenham o casomai il West Ham o il Crystal Palace, mai il Chelsea signorile. Dico squadre metropolitane di Londra, a Liverpool sarebbe il Liverpool e mai l’Everton, a Manchester sarebbe lo United, accomunato anche da una tragedia aerea con morte di otto suoi giocatori, nel 1958, e mai il City. In Brasile, a Rio, sarebbe il Flamengo dei poveracci, mai la Fluminense o altro, in Argentina sarebbe il Boca Junior dei genovesi migrati, anche se subito dopo Superga il grande gesto lo fece il River Plate, rivale massimo a Buenos Aires del Boca, venendo a giocare un’amichevole di partecipazione al lutto, contro una mista di grandi nomi anche bianchi e neri. Ma fu come se la regal famiglia Agnelli si fosse sentimentalmente, doverosamente ma intanto provvisoriamente trasferita sul Toro, con Boniperti che mise la maglia granata però celando poi la memoria fotografica di ciò anche a quel suo grande amico che sono stato io. Se Torino fosse in Spagna, sarebbe il Barcellona plebeo eternamente impegnato a distanza contro il Madrid Real+. O se circoscritto nella capitale iberica sarebbe Madrid ma come Atletico, non mai come Real baciato dagli dei franchisti e pure postfranchisti. In Portogallo sarebbe lo Sporting Lisbona squadra seconda, non mai il Benfica contro cui pure i granata giocarono la loro ultima partita, portati là da Valentino Mazzola che riuscì nel miracolo di essere del Toro, di essere il Toro anche amando, sospirando, volendo sempre Milano, non importa se Milan o Inter, purché sua Lombardia ottima massima.
In Brasile, a Rio, sarebbe il Flamengo dei poveracci, mai la Fluminense o altro
Il perché di queste mie affermazioni, dogmatiche lì per lì, sicuramente esiste, contortuccio ma esiste, ma se uno mi chiede di spiegarglielo è la fine della mia stima, del mio sodalizio, provvisorio o di più, verso quest’uno. Perché sì: non c’è spiegazione più chiara e forte e giusta. Forse debbo spiegare perché amo quella lì e non quella là? Ma siamo matti? Se spiego abdico. Tante volte e per tanto tempo diverso parlai con Gianni Agnelli di Toro e Juve, mai lui mi chiese perché ero del Toro, sicuramente acciocché io non gli chiedessi come faceva ad essere della Juve. Intendiamoci, io capisco perfettamente uno che, non nato e cresciuto a Torino o immediati dintorni, si occupi di calcio e scelga la Juve: che è o è stata Fiat, dunque città che lavora e produce, scudetti, famiglia Agnelli presto tutta appiccicata ad essa, grandi calciatori come gli oriundi anteguerra, Boniperti, Parola, Sivori, Charles, Platini e poi fate voi che io mi faccio triste solo a pensarli. Se uno mi sceglie la Juve come squadra anche del mondo, ci sto, o meglio, me ne frego. Ma Torino non c’entra. Mi va anche che un migrante arrivi a Torino e si proclami juventino credendo magari di farsi così più torinese. Ha tutto il diritto di sbagliare, come io ho tutto il dovere di scrivere che si sbaglia. Essere di Torino e dunque essere del Toro è connotazione sentimentale di scaturigine se volete misteriosa. Perché sì, ci mancherebbe altro che con la stampa scritta in affanno si perdesse tempo a spiegare. Accertata e accettata una identità, professare la passione viene automatico. Ma direi che non è necessario. Si può essere del Toro anche senza sapere che il Toro ha appena pareggiato con la Salernitana. Il Toro è nell’aria, come un amore. Acchiapparlo per un vero, pieno torinese è un piacere, per nessun altro deve essere un dovere. La mamma di Urbano Cairo mi capirebbe, la conoscevo. Lui ha altre cose da fare e le fa pure bene: ma è un altro articolo.