Torino, Primavera 2024
Eduardo Galeano, scrittore e saggista uruguaiano che amava il calcio, soleva dire: «Nella vita, un uomo può cambiare moglie, sesso, idea politica, religione, ma non la squadra del cuore». In effetti, salvo qualche clamoroso caso, è una verità inconfutabile. Qualcuno, da fondo sala, potrebbe alzare la mano e obiettare: «Ma tu di squadre ne hai due!». Vero. La prima, per me nato a San Paolo del Brasile, è stata il Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia, ed era, ed è tuttora, l’onore e il vanto della comunità italiana. Nel 1961, i miei genitori decidono di tornare nel Belpaese: non più nella loro Verona, ma a Torino, all’epoca del mito, tra verità e menzogna, del Boom Economico. E, non ricordo per quale motivo, comincio a tifare per la Juventus. Una società, come ci ha spiegato Giovanni Arpino, “universale”, mentre il Toro “è un dialetto”. La Vecchia Signora, già a quel tempo, è seguita, come sottolineò Mario Soldati, dai torinesi ricchi e borghesi, dalla maggior parte degli operai meridionali della Fiat Mirafiori, in molti anfratti della Penisola. Per me ragazzino, agì, alla Eugenio Montale, quel nome che rimandava alla giovinezza, agli studenti del liceo classico Massimo d’Azeglio, lo stesso di Cesare Pavese, che avevano fondato Madama il primo novembre 1897, su una panchina di corso Re Umberto. Il mio primo scudetto da sostenitore, il tredicesimo della storia juventina, arriverà soltanto nel 1967, con il paraguaiano Heriberto Herrera, detto “il sergente di ferro”, in panchina, e poi Anzolin, Gori, Leoncini e via continuando, una filastrocca imparata a memoria.
Era un altro football fatto di passione e di sentimento, di una vera e propria poetica
Andavo allo stadio Comunale, con il mio fraterno amico Giancarlo, in curva Filadelfia, leggevo il mensile Hurrà Juventus e letteralmente divoravo le cronache in bianco nero di Vladimiro Caminiti su Tuttosport e di Bruno Bernardi su La Stampa. Durante le trasferte, mi attaccavo alla radiolina per ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto. Ma non avevo ancora il mio idolo. Il calciatore preferito. Quello che per me, sempre e per sempre, avrebbe rappresentato il simbolo più chiaro e intenso della mia squadra. Arriva, il mio beniamino da poster in camera, l’eroe che avrebbe sostituto Sandokan e il Corsaro Nero, nell’estate del 1968, da Varese: Pietro Anastasi, detto Pietruzzu. Centravanti di stile sudamericano, veloce, saettante, capace di acrobazie impossibili: in rovesciata, in tuffo di testa, dopo un dribbling ubriacante. Giocavo anch’io con il numero nove e cercavo, in tutti i modi, di “essere Anastasi”. Ecco: fu soprattutto grazie a quell’attaccante catanese che la Juve diventò per me una questione di appartenenza e di identità. Un gozzaniano “miste ro senza fine bello”. Era un altro football fatto di passione e di sentimento, di una vera e propria poetica. Oggi tutto è cambiato, trionfa il marketing, un pallone buono per tutti i giorni, i giocatori “bandiera” non esistono più (o quasi). Ma il pallone resterà il mio orgoglio, il mio racconto sposato con la letteratura: e la Juventus il rimando costante alla mia gioventù. Alle stagioni degli stupori e dell’innocenza, quando una palla di cuoio duro rotolava festante in compagnia dei nostri sogni e del nostro futuro. E noi, sentinelle del passato, abbiamo il dovere di passare il testimone ai giovani di oggi. Perché il miracolo, a ben vedere, malgrado tutto, rimane il gioco: capace di unire tutti, la palla non ha etnia, barriere, religione, bastano un pezzo di cortile e due giubbotti a fare la porta e ricomincia l’incantesimo, un’altra primavera.