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Sentenze bianconere

di Darwin Pastorin

Il racconto del mito bianconero

Torino, primavera 2019

Valentino Mazzola e il Grande Torino sono inarrivabili, davvero gli Invincibili, la più grande squadra del mondo, di sempre e per sempre. Ma qui si parla di Juve, e allora vi racconterò del mio idolo, del giocatore che ha segnato la mia giovinezza: Pietro Anastasi, catanese, centravanti dalla rovesciata proletaria e dal dribbling sudamericano, in bianconero dal 1968 al 1976, oggi mio grande amico (venne, con la moglie Anna, anche al battesimo di mio figlio Santiago a Mazzè). Alla notizia del suo acquisto, nell’estate del ’68, danzai sopra il tavolo della cucina. Mio padre mi disse, semplicemente: «Conto fino a dieci…». Ero davvero al settimo cielo. Mi era sempre piaciuto quell’attaccante: anche la domenica in cui, con la maglia del Varese, rifilò tre gol alla mia cara Madama, Anzolin in porta.

Anastasi aveva decisamente sostituito, nel mio immaginario, gli eroi salgariani, era lui, ora, il mio Corsaro Nero, anzi: Bianconero. Sui jeans portavo scritto da una parte 'W il Che' e dall’altra 'W Pietro'

Soprattutto quando conquistò, al fianco di Gigi Riva, il breriano Rombo di Tuono, gli Europei, all’Olimpico di Roma, nella finalebis con la Jugoslavia, 2-0, con una sua splendida girata al volo. Pietro alla Juventus! Andavo allo stadio, in curva Filadelfia, per vederlo all’opera: era uno spettacolo puro, e che gol realizzava. Raccoglievo tutti gli articoli, tutte le foto, tutte le figurine: Anastasi aveva decisamente sostituito, nel mio immaginario, gli eroi salgariani, era lui, ora, il mio Corsaro Nero, anzi: Bianconero. Sui jeans portavo scritto da una parte ‘W il Che’ e dall’altra ‘W Pietro’. In terza media, la professoressa di italiano ci assegnò un tema: «Chi è per voi il più importante personaggio del Novecento. Riempii pagine e pagine di fogli protocollo a righe, scrivevo come un ossesso, soltanto la campanella mi fece smettere. Qualche giorno dopo, la prof cominciò a consegnare gli elaborati. E a distribuire complimenti per tutti: «Bravo per papa Giovanni XXIII», «bene per il presidente J. F. Kennedy», «ottimo celebrare gli astronauti che, tra un po’, come sembra, andranno sulla Luna». Mancavo solo io all’appello. «Pastorin, vieni alla cattedra…». «Eccomi, professoressa», cominciavo a temere il peggio. Prese a sfogliare, lentamente, il mio compito. «Dunque… Se ho capito bene, il personaggio più significativo del Novecento per te è… questo… signor… Pietro Anastasi… Un calciatore!». «Sì, professoressa». «Sono, come dire? Sorpresa…». «Soltanto perché non lo ha mai visto giocare!». La prof si fece una risata e mi premiò persino con un bel voto.

Giocavo anch’io da centravanti. Proprio come Pietro. In una semifinale di un torneo studentesco, per calciare un rigore come lui (quello contro il Cagliari del famoso 2-2, piatto destro sulla sinistra di Albertosi) rimediai una figura barbina: parata del portiere senza la minima fatica. La mia fidanzatina di allora decise, così, di uscire con il nostro terzino sinistro. Il mio beniamino mi sembrava, a quell’epoca, irraggiungibile. Immaginavo, in un futuro lontano, di poter passeggiare sotto braccio con Paolo VI, ma non con lui. Invece il tempo ci ha avvicinati e uniti. E ancora adesso Pietruzzu mi sorprende quando mi dice, sorridendo: «Sai, Darwin, della mia vita continui a sapere e a ricordare più cose tu di me».