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di Walter Comello

Lettera da Sarajevo

Torino, 2 maggio 2020

Il Po non è mai stato così bello, l’acqua è quasi trasparente e fa venir voglia alle trote di trasferirsi dal Monviso in città. Le piante sono coperte di fiori e con la brezza del pomeriggio, in prossimità del ponte Umberto I petali rosa dall’ultimo intenso profumo di vita si staccano dai rami per galleggiare sull’acqua. Sono portati dal fiume con rispettosa lentezza e in un sacrale silenzio e c’è una ragione. Sono raggiunti da inconsapevoli papere giocose che simulano per gli stessi un certo interesse, come chi in prossimità della morte non ne coglie il senso. Nella capitale della Bosnia-Erzegovina i fiori più importanti si trovano sull’asfalto, non profumano e ormai fortemente scoloriti dal tempo nemmeno gli abitanti li notano più. Sono le rose di Sarajevo, testimoni silenziose del tremendo assedio vissuto dalla città dal 1992 per quasi quattro anni.

La guerra finì solamente quando la voglia di vita prevalse sulla paura della morte. Per anni la popolazione restò chiusa in casa

Quelle rose sono buchi scolpiti dai colpi dei mortai sui marciapiedi e sui muri delle case, poi riempite alla fine della guerra da resina rossa. È stato l’assedio più lungo della storia moderna, una guerra che non finiva più, cecchini sulla parte alta dei palazzi facevano tiro a segno sui passanti e i mortai devastavano ogni giorno le piazze dei mercati. La guerra finì solamente quando la voglia di vita prevalse sulla paura della morte. Per anni la popolazione restò chiusa in casa abbracciata alla speranza e sbarrando la porta per tenere fuori la paura. Poi divenne capace di accettare che i bambini tornassero a giocare in strada e che fossero uccisi dai cecchini, che le donne non tornassero più a casa dal mercato o gli uomini finissero in una fossa comune all’insaputa dei famigliari per evitare che morissero di fame. Solo così finì la guerra. Le tragedie finiscono solo quando la voglia di vita accetta di convivere con la morte.

Le parole e i numeri non contano nulla. Nel nostro caso forse abbiamo un’aggravante, il nemico non appartiene ad un’altra etnia, non si vede e non possiamo essere arrabbiati con lui perché ci imprigiona o uccide chi ci è caro. Non possiamo difenderci, se non ridurre le probabilità del contagio. Non ci possiamo più fidare di nessuno perché ognuno, anche l’amore della nostra vita, l’amico più caro, potrebbe essere un maledetto cavallo di Troia che attende paziente di essere introdotto all’interno delle mura.

Mentre a Torino i colpi di mortaio hanno il rumore delle sirene delle autoambulanze, sulle acqua della Miljacka a Sarajevo cadono gli stessi petali rosa dall’intenso profumo di vita.