Home > People > Sguardo d'Autore > Liana Pastorin e i racconti ad orologeria
Scrittrice al debutto, torinese, Liana Pastorin, nonostante sia architetto, ha sempre avuto a che fare con la comunicazione: «Però – ci tiene a precisare – la mia formazione universitaria è stata fondamentale nel lavoro come nella scrittura. Io sono architetto nell’approccio e nella costruzione dei progetti. Applico quel modo di ragionare su altri piani e la mia struttura mentale non è quella classica del comunicatore, portato sovente ad agire d’istinto. Anche nella scrittura è così, i racconti rispondono all’ispirazione, ma poi li definisco come formule, mettendo al proprio posto ogni casella. O almeno ci provo». Liana si è dedicata per anni all’attività di ufficio stampa e – dal 2016 al 2019 – ha seguito alcuni tra i principali progetti dell’Assessorato al Turismo e alla Cultura della Regione Piemonte: ‘Dopo l’UNESCO agisco’ e ‘Chef alle stelle’. «È stata una grande esperienza – ci racconta – perché ho seguito queste iniziative in tutto il loro sviluppo, dalla creazione ai diversi eventi in programma. Il progetto che prendeva spunto dall’UNESCO mi ha permesso di incontrare tante realtà virtuose sul territorio, a volte piccolissime, contribuendo a creare uno spirito di appartenenza, valorizzando progetti e iniziative che neanche gli organizzatori avevano pienamente compreso nella loro importanza. L’incontro con gli chef – culminato con la premiazione delle stelle Michelin al Teatro Regio – mi ha fatto conoscere interpreti di grande talento, individualità molto forti che è stato bellissimo avvicinare attraverso un progetto condiviso». Liana coltivava da anni il progetto di un libro, un libro di racconti, perché «troppe volte in Italia il racconto è ritenuto un genere minore. Il figlio adolescente del romanzo, che è il vero obiettivo di ogni scrittore. Per me non è così, il racconto mi permette la sintesi, mi consente di elaborare un’idea senza doverla dilatare per forza in un numero eccessivo di pagine».
Solo il primo racconto ha una forte componente autobiografica. Negli altri compare uno spunto, qualche tratto, perché l’autore mette sempre qualcosa di proprio, anche inconsapevolmente. I luoghi invece li conosco tutti, ma emergono come un elemento della vicenda, funzionale alla narrazione
E i racconti di Liana sono proprio questo: sintesi asciutte di idee e di sentimenti, meccanismi di precisione organizzati come una partitura musicale, immagini che si incastrano ad altre immagini andando a comporre una struttura narrativa che è racconto, ma che, in qualche caso, si avvicina alla poesia contemporanea, quella senza fronzoli, quella che trasmette istantanee fotografiche che si ripensano a lungo anche dopo averle visualizzate. Nella raccolta ‘Le mille e una Venezia’ (Buendia Books), non lasciatevi ingannare dal titolo, perché la città lagunare compare una sola volta e in qualche altro accenno. Gli scenari sono diversi, dipinti con tratto minimalista, pensati apposta per contenere i protagonisti e le loro brevi avventure. La narrazione è spesso in soggettiva, qualche volta in terza persona, i dialoghi non ci sono mai. Però il lettore ha immediatamente la sensazione di essere all’interno degli eventi, protagonista a sua volta ma ininfluente. Dopo qualche pagina ti rendi conto del perché: i tanti dettagli, a volte minuscoli e solo apparentemente insignificanti, che Liana sparge tra le righe rendono tutto familiare, riconoscibile, visibile. Un meccanismo a orologeria che porta sempre da qualche parte e spiazza, perché ogni racconto contiene una sorpresa, e apre un’altra pagina, che però Liana non ha scritto lasciando a te, se vuoi, il compito di andare avanti. Massimo Tallone, nella sua prefazione, scrive: «I racconti di Liana Pastorin fanno parte di quella piccola grande famiglia di opere da rileggere. Dunque, siete avvisati. Leggete con calma e posate il libro, dopo averlo letto. Ma riprendetelo due giorni dopo e vedrete che sarà un altro libro. E poi ancora, rileggetelo dopo altri due giorni. Ogni volta leggerete un libro diverso, ogni volta vi appariranno nuove visioni, nascoste nel non detto, nell’indistinto, nel bianco della pagina ». I racconti in tutto sono dieci, le pagine 64, ma questo è un distillato, si ha la sensazione che Liana abbia contato le parole prima di chiudere le bozze.
Nei tuoi racconti c’è una componente autobiografica? Conosci personalmente i luoghi dove hai ambientato le vicende?
«L’unico racconto dove c’è una forte componente autobiografica è il primo, ambientato a Venezia. Negli altri ci può essere uno spunto, qualche tratto, perché l’autore mette sempre qualcosa di proprio, anche inconsapevolmente. Però la mia resta una scrittura di fantasia. I luoghi invece li conosco tutti, ma emergono come un elemento della vicenda, funzionale alla narrazione».
I racconti della raccolta sono dieci, in origine erano di più?
«Sì, ne avevo scritti venticinque, ma ho lasciato scegliere all’editore. Ho preferito affidarmi a una mano esterna e professionale. Lo stesso ho fatto per la copertina, per l’edizione, per tutti gli aspetti legati alla distribuzione. Mi è sembrato giusto interrompere il mio compito quando ho terminato la fase di scrittura».
Sono racconti di donne o per donne? Quanto pesa il genere nella tua scrittura?
«Possono essere racconti femminili solo per il fatto che siamo portati a narrare sentimenti che abbiamo provato in prima persona. Ma in realtà la questione di genere mi è completamente indifferente. La maggior parte dei miei protagonisti può appartenere a entrambi i sessi, il loro destino non cambia per questo».
Sei legata a Torino? Che cosa ami particolarmente della tua città?
«A Torino sono molto legata, ma le affinità con una città cambiano nel corso del tempo. Da bambina mi appassionava il luogo dove passavo gran parte della mia giornata: il cortile delle case di Santa Rita. Quei grandi cortili, con tutti gli edifici attorno, erano il luogo dei miei giochi e delle mie fantasie, prendevano sembianze esotiche e avventurose».
Com’è la tua Torino di oggi?
«Amo particolarmente la precollina e piazza Gran Madre, ma probabilmente il luogo che prediligo è piazza Maria Teresa: magnifica, perfetta. È anche importante il punto di vista dal quale ti poni quando osservi la città. A me piace sedermi al Caffè Elena e guardare fuori, osservare ciò che vedo e ciò che accade. Poi ci sono i luoghi che sono cambiati, anche radicalmente. Quando ero più giovane piazza Solferino non era certo un bel posto, poi, con le Olimpiadi, il contesto è cambiato molto e in meglio. Da architetto trovavo molto belli i due giandujotti, peccato non ci siano più. Difendo anche piazzale Valdo Fusi, a molti non piace, ma io lo trovo un luogo vivibile, che ha fatto dialogare parti diverse della città. E poi ricordi com’era prima? Un anonimo parcheggio. Certi spazi della Torino aulica li amo meno, come piazza San Carlo: bellissima ma in fondo inospitale, la gente l’attraversa quasi con timore. Dopo aver vissuto sia a Roma che a Londra, trovo che Torino proponga una dimensione ideale: grande ma a misura d’uomo, perfetta per essere scoperta con lentezza».