News

Massimo Miro

La sua "Suite" è un viaggio nel tempo

di Guido Barosio

Speciale 2021

Il romanzo Suite berlinese (Scrittura pura Casa Editrice, 2021) ini- zia dove finisce, in quei giorni di novembre del 1989, quando la sto- ria cambiò per sempre, con il “crollo” del muro che divideva in due mondi la città. Ma – prima degli eventi conclusivi, che poi non si riveleranno tali, perché il lettore si troverà di fronte a una soluzione “aperta” – la vicenda fa avanti e indietro nel tempo e i due protagonisti, Gala e Klaus, vivono una storia d’amore sospesa tra misteri, accadimenti surreali, premonizioni, pagine di sto- ria, in un’ambientazione berlinese che aggiunge il fascino di un luogo sospeso e diviso. Il libro avvince e stupisce per la bellezza dei protagonisti e per il ritmo narrativo voluta- mente difforme. A parti più lente e intimiste seguono altre rapide e incalzanti, con un finale che si tinge coi colori del giallo e un omicidio descritto e concepito come da un maestro del noir. Suite si apre con un’avvertenza per il lettore, il quale viene messo in guardia da un “protocollo sperimentale” che Klaus e Gala decideranno di seguire segnando per sempre il proprio destino. Le tecniche sono attribuite a Einstein e rivelano l’amore per la fisica quantistica di Massimo Miro. «Sono da sempre un appassionato di questo tema e delle possibili conseguenze che certi esperimenti possono causare – ci spiega Massimo – Mi sono anche documentato sulla sorte del fisico Ettore Majorana, che scomparve misteriosamente. E se anche lui fosse stato vittima di un esperimento come quello condotto dai miei due protagonisti? E se anche lui fosse entrato in un’altra dimensione?». Lo dice e sorride, convinzione o inganno letterario? Lasciamo la risposta ai lettori.

Nel tuo romanzo il luogo dell’azione è Berlino, in particolare Berlino Est. È qualcosa di più di uno scenario? Da dove viene questa fascinazione?

«È una cosa che mi porto dentro fin da ragazzino. Il fascino per un luogo che è l’antitesi del nostro: governato da ritmi lenti, opaco ma a modo suo rasserenante. Uno spazio anestetizzante, dove si vive come in una  sorta di coma emotivo. In particolare mi ricordo quando, da bambino, avevo visto la partita di calcio tra Germania Ovest e Germania Est ai Mondiali del ’74. Due squadre agli opposti: una ricca, favorita, quasi perfetta, con le sue divise candide. Di fronte i tedeschi orientali: tutti seri e un po’ tristi, con le magliette blu e la scritta DDR. Poi accadde l’incredibile e vinsero loro, con un gol di Sparwasser che è passato alla sto- ria. Oggi, a distanza di trent’anni dall’unificazione, i tedeschi riscoprono  la memoria di quell’altra Germania in un fenomeno che si chiama  Ostalgie, molto più estetico ed esistenziale che politico. Noi facciamo tante cose ogni giorno, persino troppe, ma possiamo ancora pensare che sia esistito un mondo diverso, dove ci si poteva annoiare per un intero  pomeriggio».

Ed è quello che fa Klaus, fotografo, che a un certo punto abbandona il suo mondo di professionista internazionale per un negozietto a Berlino Est?

«Esatto. Le pagine dedicate a quella parte della sua vita sono le più  lente, volutamente minimaliste. È in quella dimensione che Klaus cerca  e trova rifugio».

Nei miei libri il contesto è sempre legato a eventi storici di significativa rilevanza: in questo c’è la caduta del muro, nei precedenti il delitto Moro e l’omicidio di John Lennon

C’è qualcosa che collega i tuoi romanzi precedenti a questo?

«C’è un elemento che si ripete da tempo. Nei miei libri il contesto è sempre legato a eventi storici di significativa rilevanza: in questo c’è la caduta del muro, nei precedenti il delitto Moro e l’omicidio di John Lennon. Forse questi accadimenti mi hanno offerto uno scenario che, in qualche modo, ha supportato gli elementi narrativi».

Come e dove hai concepito Suite berlinese?

«Tutto è nato durante un viaggio a Berlino e la prima cosa che ho deciso è stata il finale. Quando inizio a scrivere, il quadro delle vicende è  già chiaro nella mia mente».

Ti potrebbe interessare una vicenda contemporanea?

«Penso di no. Perché dovrei inserire degli strumenti tecnologici – come  gli smartphone – che disturberebbero gravemente la mia narrazione. Oggi viviamo in un tempo “non letterario” difficile da raccontare, con questi protagonisti che potrebbero essere facilmente raggiunti e scoperti in ogni luogo. Se ci pensi, la tecnologia contemporanea avrebbe smontato e reso impossibili secoli di capolavori».

Torino e Berlino, esiste un parallelo?

«Direi di no. Berlino è stata una grande capitale con grandi utopie e ha avuto una genesi storica completamente diversa. Le due città si possono forse incontrare negli anni Ottanta, quando i palazzi del nostro centro cittadino erano più grigi di caligine, proprio come certe parti di Berlino Est».

Com’è la tua Torino?

«Io sono nato a Milano e sono arrivato a Torino da bambino. Subito ho patito le differenze, perché tutto mi sembrava più piccolo, dai cortili dei palazzi ai negozi di giocattoli. Poi mi sono innamorato della città, in particolare dello scenario musicale underground che ho frequentato, suonando in diversi gruppi, negli anni Ottanta. C’era un’energia particolare che si confrontava, in evidente contrasto e per reazione, con la città operaia grigia, chiusa, governata dalla grande fabbrica. Torino era, con Bologna, la vera capitale musicale italiana; molto più avanti di Milano. Una cultura di grande fascino che nasceva anche dalla sofferenza e dal disagio».

Dopo, negli anni olimpici, Torino è cambiata molto…

«Sì, Torino è diventata più bella, il  suo centro storico si è profondamente trasformato. Il Quadrilatero Romano, che era in mano ai trafficanti e ai ricettatori, è diventato un luogo d’eccellenza della città, coi prezzi delle case saliti alle stelle. Ma, attenzione: dietro quest’apparenza, non tutto era benessere. La cultura dello spritz ti fa sentire arrivato, ma in realtà non è così. L’illusione può mascherare un ascensore sociale con distanze anche superiori alle precedenti».

E adesso?

«Io non sono pessimista, anzi. Il futuro della città non sarà più industriale, ma sicuramente ci sono nuove energie e penso che Torino se la stia cavando abbastanza bene. Lo spirito della città non è morto nel 2006. Certo occorre guardare oltre le varie movide – Quadrilatero, San Salvario, Lungodora – che continuano a essere illusorie. Lo spritz è piacevole ma non è una soluzione».

Oltre alla scrittura, quali sono le tue passioni?

«Sicuramente il collezionismo legato alla DDR. Ci ho messo quattro anni a scrivere il mio romanzo e,  nel frattempo, ho raccolto molta documentazione: oggetti, gli orologi Roha che amo tantissimo e per- sino una foto autografata da Sparwasser. E poi amo il calcio. Quando posso gioco ancora e tifo Roma per una storia particolare: il mio campione preferito era Pierino Prati, poi cambiò squadra e divenni giallorosso. La mia seconda squadra è sicuramente il Toro, una passione profonda. Nel celebre derby del 3 a 2 ero in Maratona, al terzo gol mi trovai proiettato dall’alto della gradinata alla rete di recinzione. Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Le mie due squadre hanno colori simili, i miei colori».