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Mauro Berruto

'Capolavori' per allenare la mente

di GUIDO BAROSIO

Autunno 2019

Quando si incontra Mauro Berruto – ex allenatore della Nazionale di volley, formatore, scrittore, uomo di cultura sempre pronto a nuove sfide – il rischio sta nel diventare faziosi. Almeno per me. Perché amiamo entrambi i libri (già scritti e da scrivere) di un amore risoluto, perché tifiamo Toro senza compromessi, perché riteniamo lo sport una chiave di lettura del mondo, e probabilmente un modo per migliorarlo. A un certo punto dell’intervista, Mauro espone un principio che ho sempre condiviso: «Se vuoi valutare il grado di civiltà di un paese ci sono tre parametri: la salute, la scuola e lo sport». Fatta questa premessa, riassumiamo il suo curriculum: come allenatore di volley Berruto ha allenato diversi club in Italia e in Grecia, per diventare CT della Finlandia prima (dal 2005 al 2010) e dell’Italia dopo (dal 2010 al 2015). Con gli azzurri i risultati di maggior rilievo sono stati due argenti europei e un bronzo alle Olimpiadi di Londra 2012.

Lo sport è lo specchio di quanto ci circonda. Se l’Italia ha dei problemi, è naturale che il suo sport li abbia. Ciò che avviene negli stadi riflette quello che accade nelle strade e nei palazzi del potere

Nel 2015 le dimissioni lo lasciarono ai piedi del podio olimpico – con l’argento conquistato dai suoi ex ragazzi a Rio l’anno seguente – però furono e restano la scelta più logica per un ‘hombre vertical’. Ma c’è anche un altro Mauro Berruto: giornalista, amministratore delegato della Scuola Holden, docente, inspirational speaker per aziende nazionali ed estere, opinionista televisivo e ottimo scrittore, con due romanzi – ‘Andiamo a Vera Cruz con quattro acca’ e ‘Independiente Sporting’ – e un recente saggio, ‘Capolavori’, che emoziona e si legge tutto d’un fiato, provare per credere. In questo libro c’è il ‘Berruto pensiero’: gli incroci, i punti di incontro e le contaminazioni tra sport e cultura, l’essere allenatore come disciplina esistenziale, lo sport come metafora della vita, come chiave di lettura per vittorie e sconfitte. Ci sono tutte le sue esperienze dirette e ci sono esempi e citazioni che arrivano dalla pittura, dalla musica e dalla letteratura. Piccolo gioiello finale, la bibliografia: tanti titoli che dovrebbero appartenere alla biblioteca di ognuno.

Sport e letteratura, verrebbe da dire un ‘cuore diviso’, ma tu dove ti collochi?

«Io sono un uomo di sport e allo sport non ho certo rinunciato. Il ruolo non è così importante, e gli approdi possono essere differenti: coach, direttore tecnico, manager. Anche lo scenario dipende dalle opportunità, e io mi sento pronto per discipline che finora non ho frequentato, come il calcio e il basket, per fare degli esempi. Ho difficoltà, invece, a rivedermi nella pallavolo, dove penso di aver esaurito un ciclo. Poi non ti nego che i fatti che portarono alle mie dimissioni restano una cicatrice dolorosa».

Nel mondo dello sport il calcio riveste un ruolo dominante, che supera ogni dato tecnico. Lo ritieni un elemento per comprendere, e valutare, una società?

«Sicuramente. Il calcio, oggi, è il più universale dei linguaggi. Parla ai popoli come neanche i fondamentalisti religiosi sanno fare. E il calcio aiuta a comprendere tante altre cose, perché c’è sempre lo sport fatto bene e quello fatto male. Anche nel calcio è fondamentale dire come la pensi. E qualche campione, non tutti, ci riesce. Tra i calciatori migliori, sotto questo aspetto, ricordo Claudio Marchisio».

Lo sport può aiutare a comprendere lo stato di salute di un Paese, di una comunità?

«Lo sport è lo specchio di quanto ci circonda. Se l’Italia ha dei problemi, è naturale che il suo sport li abbia. Ciò che avviene negli stadi riflette quello che accade nelle strade e nei palazzi del potere. Lo sport è come l’economia, l’arte, la scienza e la politica. Una partita di basket 3 contro 3 nei cortili del Bronx può raccontarti molte cose degli Stati Uniti. E gli esempi potrebbero essere moltissimi. Comunque, chiedere allo sport di essere perfetto, di essere un’oasi, è perdente».

In ‘Capolavori’ la figura del coach è centrale. Ma nell’allenare conta di più la tecnica o il fattore mentale?

«Senza alcun dubbio l’approccio mentale. La tecnica deve essere un dato acquisito, e, se ci sono innovazioni, tutto diventa disponibile molto rapidamente. Invece tu devi allenare la mente, prepararla alla sfida, ma, soprattutto, prepararla agli imprevisti: ambientali, climatici, psicologici, legati al comportamento degli avversari. Altrimenti basta un minimo dettaglio e vai in tilt, finisci in una situazione dove la tecnica non ti serve più a nulla».

Stai lavorando a un nuovo libro?

«Sì, ma non so ancora quando sarà pronto. Recentemente mi sono appassionato agli albori della storia del volo in Italia, dove molte vicende si sono svolte a Torino. Nel mio romanzo si incrociano due storie. La prima è legata a Giovanni Raicevich, il più forte lottatore al mondo nella lotta grecoromana, ma anche attore – fu il primo Tarzan italiano – e personaggio irrequieto, in continuo divenire. La seconda ha per protagonista il pilota Léon Delagrange, che da Torino, l’8 luglio 1908, decollò insieme alla sua amica Thérèse Peltier, in quell’occasione la prima donna della storia a volare».

Come valuti la Torino odierna e come vedi la città in prospettiva?

«Da uomo di sport non posso che fare una facile affermazione: Torino ha avuto uno straordinario cambiamento in occasione dei Giochi del 2006. Fu uno spartiacque che non si può certo ridurre all’evento in sé: le Olimpiadi cambiarono la mentalità dei cittadini, li resero più consapevoli del proprio patrimonio, la città si rivelò agli occhi del mondo. Furono gli anni della ‘Torino giovane’, si affacciarono nuovi protagonisti nella musica, nelle arti, nella letteratura. Il torinese ‘noto’ aveva mediamente 30 anni in meno dei suoi predecessori. Poi le cose sono cambiate, c’è stata una sorta di rigetto, quasi rabbioso, che ha portato alla nuova amministrazione. Un fenomeno riscontrabile negli esiti del ballottaggio, dove, in 15 giorni, i risultati si sono rovesciati. Oggi manca una visione strategica per il futuro e dobbiamo recuperare alcuni elementi forti nella nostra storia, come la capacità inclusiva. Torino è sempre stata la città dell’inclusione, un fenomeno evidentissimo negli anni della grande emigrazione dal sud. E poi serve rimettere al centro le competenze, questo è fondamentale».

Mauro Berruto e il Toro. Cosa rappresenta per te?

«Per me la passione granata è qualcosa di intimo e profondo che arriva da lontano. Da mia nonna che cuciva i labari del Grande Torino. Oggi noto una distanza tra la proprietà, che in questi anni ha fatto molto, e la tifoseria. Sarebbe importante ricucire il rapporto, creando un board composto dai nostri campioni storici e da quelle figure della cultura più vicine al Toro per passione e conoscenza».