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Sentenze bianconere

di Darwin Pastorin

Anatomia di un capolavoro

Torino, Speciale Torino Futura 2022

Quarant’anni fa: una delle imprese più belle del calcio italiano, forse la più epica, la più letteraria. L’11 luglio 1982, allo stadio Santiago Bernabéu di Madrid, superando per 3-1 la Germania Ovest in finale, l’Italia si laurea per la terza volta (poi arriverà il successo del 2006 a Berlino) campione del mondo. Io ero lì, giovane inviato del quotidiano Tuttosport, diretto da Pier Cesare Baretti. Ritrovo l’abbraccio del mio amico Claudio Gentile, mentre gli azzurri salivano la scalinata per ricevere dal re Juan Carlos la preziosa e strameritata Coppa. E come dimenticare, in quella notte illuminata dalla bellezza e dal mito, la felicità, in tribuna d’onore, di Sandro Pertini, il nostro presidente partigiano? Quello fu il successo di un allenatore nobile, coraggioso, dalla schiena dritta, Enzo Bearzot, e di giocatori che non hanno mollato mai, nemmeno nel pieno della bufera delle critiche e dei risultati scadenti. In primo piano, un campione rinato: Paolo Rossi, passato da una ingiusta, assurda condanna di due anni per lo scandalo del Totonero alla cima dell’universo; sei gol, capocannoniere della manifestazione, futuro Pallone d’Oro. Una nazionale con sei juventini titolari: Zoff (il capitano), Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Paolo Rossi. E come ci mancano Gaetano e Pablito. La loro classe, la loro umanità, il loro orgoglio, la loro determinazione: resteranno per sempre nel mio cuore, con il mio bene, il mio affetto, la mia nostalgia. Fu, quello, uno straordinario capolavoro. Il passaggio dal buio al miele. I tre pareggi nella prima fase, il superamento del turno arrivato con il secondo posto, dietro la Polonia, e solo per via della miglior differenza reti rispetto al Camerun. E giù critiche aspre, veleni, la decisione, da parte dei giocatori, di scegliere il silenzio stampa. Tra i pochi a difendere Bearzot e i suoi ragazzi, voglio ricordare Baretti, Arpino e Cucci. L’Italia deve andare a Barcellona per affrontare Argentina e Brasile. Per tanti, troppi, quelle disfide rappresenteranno la nostra umiliazione, per giunta con quel Rossi che non riesce a segnare, ma volete mettere Maradona e Zico? Ma il calcio, come ormai ben sappiamo, non è una scienza esatta, il calcio, come ci ha insegnato Sartre, è un’abbagliante «metafora della vita», dove tutto può improvvisamente cambiare, la pioggia fitta trasformarsi in un sole splendente.

Sono passati 40 anni, ma nella mia mente tutto è ancora vivido e presente. L’impossibile che diventa possibile, l’utopia realizzata. L’11 luglio 1982 l’Italia si laurea per la terza volta campione del mondo

E gli azzurri superano gli argentini per 2-1, con le reti di Tardelli e Cabrini; pochi giorni dopo è la Seleção a piegare i biancocelesti per 3-1. Così si arriva al 5 luglio, stadio Sarrià, con i brasiliani che per andare in semifinale possono contare anche sul pari. Già, il mio Brasile: Léo Júnior, Sócrates, Toninho Cerezo, Falcão, Zico. I riverberi della mia infanzia a San Paolo. La finta di Garrincha. I romanzi di Jorge Amado. Gli assi guidati da Telê Santana li ho visti, fino a quel momento, dare spettacolo, regalare splendori e meraviglie, da Siviglia fino alla vittoria sulla Selección. I verdeoro sono i grandi favoriti. Ma in quel pomeriggio di fuoco, come per incantamento, Paolo Rossi ritrova la strada della gloria grazie al proprio talento, al proprio carattere, alla propria testardaggine e alla fiducia assoluta di “papà” Bearzot: 3-2 per l’Italia, tripletta di Pablito, Sócrates, Falcão. Il resto diventa la cronaca di una vittoria annunciata: 2-0 alla Polonia (doppio Rossi) sino al 3-1 ai tedeschi (rigore fallito da Cabrini, Rossi, Tardelli con quel suo urlo di gioia infinita, Altobelli, Breitner). Sono passati 40 anni, ma nella mia mente tutto è ancora vivido e presente. L’impossibile che diventò possibile, l’utopia realizzata, il sorriso a girasole di Pablito, il volto senza più ombre dell’immenso Enzo Bearzot, il Vecio narrato da Giovanni Arpino.