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Torino, Primavera 2023
Mi scuso se parlo di me, ma mica tutti hanno avuto un covid 2 a due anni e tre vaccini di distanza dal covid 1. Il primo con sette ospedali in due mesi di spostamenti, niente terapia intensiva per non sciupare la macchina con un vecchiaccio iperottantenne morituro. Il secondo con dieci duri giorni di ospedale poco tempo fa, reiterato tremendo intervento di esplorazione e sfrucugliamento delle arterie intorno al cuore mediante cattivissima sonda dall’inguine. Questo ultimo picco del mio dolorosissimo iter covidiano ha coinciso più o meno con gli abissi giudiziari (giustizia sportiva e non solo) di una squadra di calcio di Torino chiamata Juventus.
Ho vissuto una vita da giornalista a detta di tutti, talora con ironia e/o compassione, intemerato e imparziale. In primis fra i tutti un grande amico quale Giampiero Boniperti, al quale sempre ho fieramente esposto il mio tifar granata. Come ho fatto pure vis à vis con Gianni Agnelli, saputo di come avevo intrapreso e fachiristicamente concluso una maratona di New York in un freddissimo giorno, appunto del freddo mi chiese, di come lo avevo vinto, e gli feci vedere la mia foto in gara: avevo corso per 42 km e 195 metri indossando la supertermica maglia del Toro.
Nella lunga scia balorda del mio covid 1 e nelle diramazioni feroci del mio covid 2 ho eseguito rassegne continue della mia vita, onde cercare di ancorarmi ai tanti ricordi belli – ho una memoria strepitosa, intonsa – intanto che il virus maledetto mi toglieva i gusti, gli odori e altri piaceri (il culmine dei culmini quando dovetti squallidamente riconoscere che non provavo più voglia alcuna di ostriche, per me ormai nel non gusto vicinissime al pollo lesso senza maionese). Tutto ciò mentre si rafforzavano certe costanti sensitive: fra esse il non riuscire proprio a non godere per le disgrazie (sportive e non solo) della Juventus.
Che male c’è a tifarle contro, sino a godere dei suoi crucci, memori di quando lo facevano verso di noi i suoi tifosi?
Se devo in qualche modo, per qualche verso ringraziare il covid 2, è proprio per questo rafforzamento di qualcosa che sapevo dentro di me, nel senso di una ribellione per il “massì, è pur sempre una squadra della mia città”. Macché massì. Che male c’è a tifarle contro, sino a godere dei suoi crucci, memori di quando lo facevano verso di noi i suoi tifosi? È un teatrino, amen. Boniperti amava il Grande Torino la cui memoria era sempre ben viva in lui, e però in caso di derby vinto (frequentemente) dai bianconeri imitava Gianni Agnelli e mi diceva, in un francese di pronuncia povera di fronte a quella sontuosa del suo sire: «On a tué la vache».
In fondo se ho un debito con i miei covid è proprio per via di questo accertamento che specie il covid 2 mi ha permesso, facendo speleologia e alpinismo insieme nei miei sentimenti sportivi, pardon calcistici (lo sport è altra cosa che il calcio, specie questo calcio). Personalmente dico che, se ci volevano due covid, un insieme di nove ospedali, un quasi tre mesi di ricoveri, di cui uno in terra francese proprio il giorno in cui Giampiero moriva, per chiarirmi che godere della Juve che perde colpi non è sadismo, idiozia, becerume, tradimento cittadino e altro ancora, è invece divenire umano, benvenuto anche il covid 2. Dopo Juve-Monza 0 a 3 mi doleva ancora terribilmente l’inguine per le tre sonde che da lì erano salite, con una minianestesia, al cuore e dintorni, ma nel sogno acre studiavo la prima frase che avrei voluto dire a Giampiero redivivo: «Ho peccato? È peccato? No, è vita!». Mi sostiene il grande Catullo, “odi et amo, quare nescio… sed fieri sentio et excrucior”. Excrucior, sì, scocciato nobilmente alla Gianni Agnelli, non addolorato e meno che mai pentito.