A dieci anni dall’uscita del suo primo libro, ‘La solitudine dei numeri primi’, che ottenne il premio Strega e fu pubblicato in quaranta Paesi (vendendo in Italia un milione di copie nel solo 2008), Paolo Giordano, 36 anni, torinese, pubblica un nuovo romanzo: ‘Divorare il cielo’ (Einaudi), che verrà presentato al Salone del Libro. Nel corso della sua carriera altri due titoli: ‘Il corpo umano’ del 2012, ambientato tra i soldati italiani in Afghanistan, e ‘Il nero e l’argento’ del 2014, storia dolente e profonda di una giovane coppia. Giunto al successo giovanissimo, Giordano sembrava orientato verso un altro destino professionale, avendo ottenuto la laurea specialistica in fisica presso l’Università di Torino con una tesi premiata tra le migliori. Poi la scrittura, il successo, e un cambio di rotta che lui definisce «Naturale. Frutto degli eventi. Anche se pensavo davvero che avrei fatto il fisico. Ho vissuto il mio percorso di studi in modo totalizzante e il distacco da quella materia è stato quasi doloroso».
Sei uno scrittore con tempi decisamente lunghi, tre romanzi in dieci anni, come organizzi la tua attività?
«Premetto che faccio lo scrittore a tempo pieno. Certo, ho anche altre occupazioni, come l’insegnamento e la collaborazione ad alcune testate, ma sono attività di contorno. Mi piace lavorare con calma e attenzione, dedico tutto il tempo che serve alla stesura del testo, poi ogni tanto mi fermo, torno indietro, rivedo certi percorsi. La cosa curiosa è il raffronto col mondo degli altri, dove tutto sembra scorrere più veloce. Incontri le persone che ti dicono cosa hanno fatto e ti sembra, in confronto a loro, di essere rimasto fermo. Perché tu sei al punto di prima, stai scrivendo lo stesso libro che stavi già scrivendo ai tempi dell’incontro precedente».
Amo il grattacielo Intesa Sanpaolo, che oggi domina lo scenario. Quando venne costruito dissero che alterava la skyline torinese, ma Torino non ha mai avuto una skyline, quindi benvenga
Il tuo nuovo romanzo si sviluppa tra due scenari fortemente contrastanti, Torino e una masseria pugliese. Questi luoghi condizionano i protagonisti?
«‘Divorare il cielo’ è la storia di Teresa e Bern, che si conoscono in Puglia durante l’età dell’adolescenza, un momento magico e irripetibile nella vita di tutti. Dopo, crescendo, faranno avanti e indietro con la grande città, l’altro polo, quello dove si affrontano le responsabilità. Ecco, i luoghi sono anche una metafora del tempo che passa. Con questo libro torno al romanzo di formazione, ma penso che sia l’ultima volta».
Hai amato molto la Puglia?
«La amo profondamente. Ho anche comprato un trullo e produco il mio olio. La Puglia è una terra favolosa, con una campagna bellissima che si affaccia verso il mare. Quello che trovo incantevole è la luce, molte volte tersa, limpida, una luce che accarezza paesaggi e oggetti rendendoli particolarmente definiti. A Torino non è così, quelle giornate sono rare. Tanto rare che, quando ci sono, tutti si fermano e procedono più lentamente per godersele».
Riesci ad andare spesso in Puglia?
«Il vantaggio della vita da scrittore sono i tempi, la gestione dei tempi. Così posso permettermi di andare in Puglia per tre mesi durante l’estate».
Qual è il tuo rapporto con Torino?
«Il mio con Torino è un rapporto particolare perché non ci sono cresciuto. Ho trascorso la mia infanzia e la mia adolescenza a San Mauro, alle porte della grande città. Quindi per me Torino era vicina ma allo stesso tempo una realtà distante. Oggi, che ci abito, scopro di non avere una storia personale legata a questi luoghi, e fa la differenza rispetto ai veri torinesi».
Che cosa ti piace di Torino?
«Innanzitutto il posto in cui vivo, vicino a corso Inghilterra e a corso Mediterraneo, lungo quell’asse dove Torino è veramente una città metropolitana, ricca di stimoli e di bellezza. Dalla stazione di Porta Susa fino al Pala Alpitour è cresciuto il nuovo e, secondo me, è cresciuto bene, con prospettive ampie ed edifici contemporanei».
Ce n’è uno che ami particolarmente?
«Il grattacielo Intesa Sanpaolo, che oggi domina lo scenario. Quando venne costruito i detrattori dissero che alterava la skyline torinese, ma Torino non ha mai avuto una skyline, quindi ben venga. Dall’alto del grattacielo si può osservare una città nuova, che prima non era visibile, una città che si ammira da una prospettiva differente».
Dove vai, da solo o in famiglia, per una passeggiata?
«Io cerco sempre di ritrovare il fiume, perché sono cresciuto davanti al Po. Quindi il Valentino rappresenta il luogo ideale per le passeggiate, è una dimensione che amo molto».
Cosa ne pensi dello scenario culturale torinese?
«Torino deve ridefinirsi. Abbiamo vissuto un periodo importante di grandi trasformazioni, di grandi fermenti. Durante gli Anni Novanta e fino all’inizio del nuovo millennio c’erano artisti, scrittori e musicisti emergenti. Molti di loro sono cresciuti e si sono imposti a livello nazionale. È stata una bella fase, Torino aveva una vivacissima scena underground. Oggi provo nostalgia per quei momenti e mi sembra che non ci siano gli eredi di quella stagione così dinamica. Ma forse non è giusto, probabilmente non siamo più in grado di conoscerli. Ogni età ha i propri scenari».
Quali erano i tuoi scenari underground?
«Sicuramente i Murazzi, un faro per la mia generazione, e poi i Docks Dora».
Gli anni del nuovo millennio hanno arricchito il panorama urbano di spazi e strutture per il food, la cultura e l’intrattenimento. Un patrimonio che manca in altre città…
«Verissimo, e te ne accorgi solo quando cominci a elencarle: Eataly, il Pala Alpitour, le Ogr, il nuovo Museo Egizio, l’Oval, adesso arriverà la Nuvola di Lavazza, e poi ci sono quelle appena più vecchie, ma che sono comunque nuove, come la Fondazione Sandretto, che amo particolarmente. Forse è nel mondo del food che abbiamo le novità più interessanti, spazi e strutture come a Torino difficilmente le trovi in un’altra città»
Quali sono i posti dove vai a mangiare volentieri?
«Il primo nome che mi viene in mente è Gaudenzio. Poi c’è il 28/3, che è proprio sotto casa. Da anni uno dei miei approdi preferiti sono le Antiche Sere».
Hai passioni calcistiche?
«Assolutamente nessuna, e un po’ mi dispiace. Mi manca quel tipo di emozione, quell’amore così profondo per qualcosa che non comprendo. Sono anche completamente ignorante in materia. Una sera, durante una cena, mi presentarono Antonio Conte. Tutti gli prestavano profonda attenzione e io non l’avevo assolutamente riconosciuto. Fu imbarazzante, ma persino divertente».