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Sentenze granata

di Gian Paolo Ormezzano

Quei pranzi (granata) dopo la partita del Toro

Torino, primavera 2018

Il giornalista dopo la partita lavora, cioè scrive del match che ha visto, e non solo non incontra i giocatori, ma si serve per le cosiddette interviste della fantasia di scafatissimi colleghi, fra i quali allignano grandi provvidi inventori, quelli che generosamente regalano dettagliate dichiarazioni del giocatore sulla scorta di una sillaba carpitagli mentre passa lì o anche là, insomma dove la sua rotta postpartita interseca casualmente quella del giornalista stesso, magari avviato alla sala stampa. Il desinare insieme sarebbe troppo bello nel senso che darebbe vita a un lavoro troppo facile, cioè all’intervista lunga, completa, utile per spiegare che la tua squadra beneamata (si dice così quando l’amore è eccessivo e dunque malsano) è la migliore del mondo e ha perso, se ha perso, per colpa di arbitro e caso e congiura. Dunque, mai una cena dopo la partita, eppure… Eppure ho memoria di qualche sgranocchiamento collettivo di panini in aeroporto, quando si rientra da una partita di coppa o anche di campionato e l’aereo tuo è anche quello della squadra.

Cose da reportage più con la Juve che col Toro, e dunque panino di solito raffermo e comunque cattivo, che ti resta sullo stomaco. Eppure ho memoria di qualche incontro giornalista- giocatori la domenica sera, roba di quando c’era di fisso il match la domenica pomeriggio e tutto il turno di campionato si consumava così, e andavi a lavorare in redazione dopo la partita interna del Toro, con i colleghi chiudevi il giornale tirando avanti a panini dal gusto dipendente dall’esito della partita, e poi la sera andavi in casa di Aldo Agroppi, lungo il fiume, e lì trovavi ancora a tavola con lui Claudio Sala e qualcun altro della squadra e sempre don Francesco, il cappellano che ha preceduto al Toro don Aldo, e insomma siamo in piena preistoria granata e giornalistica, antescudetto del 1976.

Il desinare insieme sarebbe troppo bello nel senso che darebbe vita a un lavoro troppo facile, cioè all’intervista lunga, completa, utile per spiegare che la tua squadra beneamata è la migliore del mondo e ha perso, se ha perso, per colpa di arbitro e caso e congiura

Eppure ho memoria di qualche serata con qualche Toroclub (di uno sono stato a lungo presidente onorario, quello di Canale d’Alba), a celebrare – di solito il lunedì sera in città o dintorni – una ricorrenza speciale o semplicemente il compleanno del club o quello dello stesso giocatore, che viene irrorato di vini importanti che lui non può bere, che viene oppresso dalle fotografie anche quando il selfie non è ancora stato inventato. Magari con l’ospite remunerato (su richiesta del suo avido agente, non sua, ci mancherebbe…), con una medaglia d’oro grossa così, con un supertelevisore ultimo modello, con un quadro di artista quotato.

Usanza questa che continua alla grande, mi dicono, in fondo il calciatore sacrifica una serata del suo poco tempo libero, e infatti lui guarda sempre l’ora e scappa via dopo il secondo, che non è quello che gli sta dietro in classifica ma è l’arrosto. Bisogna capirlo, guai se fa tardi, deve preservarsi il fisico con tanto sonno riposante e mangiare cose semplici e sane e basta, nelle ore giuste e basta. Il giornalista partecipa, se invitato, alla cena, ma si guarda bene dal cercare di trasformarla in occasione di intervista o comunque di contatto speciale: per quella cosa c’è l’allenamento al campo, ci sono insomma gli orari di lavoro, casomai ci sono le rare conferenze stampa programmate dalla società, visto che adesso nella vita privata del calciatore il giornalista non entra più, essendo il giocatore stesso, se importante, una multinazionale gestita da uno studio specializzato ricco di agenti assortiti, di specialisti dell’immagine, di volponi della sponsorizzazione.

Cose molto da Juve con i suoi divi, ma ormai cose anche da Toro, e scrivendone sbadiglio: non come affamato per un pasto che non ho fatto mai, ma come reduce dal sogno di un mondo che c’era una volta.