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Home > People > Editoriali > Il contatto degli occhi col reale > Arte e fotografia, uno sguardo oltre il confine
Torino, Autunno 2022
Mediamente, per il fotografo, essere considerato un artista rappresenta un’implicazione possibile, ma non necessaria. Per qualcun altro, addirittura un’offesa: si può dire che la fotografia venga vista, da chi la compie, come punto di partenza e di arrivo, bastante a se stessa, appartenente a un retroterra culturale specifico, e per questo definibile unicamente come fotografia. È ormai norma comune, invece, intendere la fotografia come arte, le fotografie d’autore come opere d’arte, i fotografi impegnati in un percorso di ricerca artisti, non più tanto per nobilitare la tecnica fotografica includendola tra le arti maggiori – dibattito, capeggiato da Alfred Stieglitz, che infuocò i primi anni del Ventesimo secolo – bensì eliminando i confini, spodestando la natura della fotografia per farla artificiosamente combaciare col territorio dell’arte. È questo il caso in cui il termine, e quindi il linguaggio, riesce a entrare nelle viscere di una qualsiasi entità, per divellere da dentro e trasformare anche i connotati esteriori, in questo caso della fotografia; ed è per questo che per provare a comprendere il meccanismo che lega i due termini, arte e fotografia, è necessario rimanere dentro il campo della lingua. Quando una fotografia nasce e intende essere fotografia, l’arte le si applicherà come semplice attributo di merito, e non come sinonimo. Le immagini di Robert Doisneau e quelle di Lisetta Carmi, rispettivamente in mostra presso CAMERA e Gallerie d’Italia, sono fotografie: assecondano, cioè, quella voglia di chi ama la fotografia di capire come funziona, come può essere fatta, fin dove può arrivare, rimanendo entro i mezzi concessi al puro metodo dello sguardo con cui opera.
Il fotografo trae il proprio godimento quando può trovarsi in quelle stesse acque che non saranno mai così ben conosciute e percorse da poterle abbandonare, e cercherà sempre, all’interno della fotografia, le strade più o meno battute che lo conducano dove vuoleQuando la fotografia viene invece usata come mezzo per un’espressione finale di natura diversa, non nascendo, quindi, e non volendo essere fotografia, l’arte rappresenterà il fine di quell’espressione, di nuovo senza trasformarsi in un termine sostitutivo. Le opere di Ketty La Rocca, che sono state in mostra fino al 2 ottobre negli spazi di CAMERA, o quelle del torinese Plinio Martelli – esponente del movimento Fluxus – che sono state visitabili a settembre presso Phos, sono l’esempio di quali strade possa aprire il mezzo fotografico per creare opere definibili d’arte. Questo genere di opere sono migratrici, non stagnano nelle proprie stesse acque ma vanno altrove, non concedendo più
di far addentrare chi le osserva in un territorio specifico, bensì conducendolo in un’esplorazione più libera. Il fotografo, va da sé, trae il proprio godimento quando può trovarsi in quelle stesse acque che non saranno mai così ben conosciute e percorse da poterle abbandonare, e cercherà sempre, all’interno della fotografia, le strade più o meno battute che lo conducano dove vuole. Chi sta dall’altra parte, ovvero chi organizza, divulga, cura, vende fotografia, quelle acque è necessario le conosca. È la prima legge di mercato: si deve conoscere cosa si tratta per accontentare chi compra. Nella storia di Torino e dintorni, alcuni nomi illustri hanno fatto da guida ai fotografi soltanto di una generazione fa: Cesare Schiaparelli, Mario Gabinio, Riccardo Moncalvo, Vittorio Sella, sono gli occhi e negli occhi di chi va adesso alle mostre, di chi le visita cercando quella scintilla che ora appare così arcaica e raramente ravvisabile se non in qualche blasonato, già ritrito nome. La fotografia non rinnega la conquista di essere definita arte se ciò serve a riconoscerle pari meriti, e se arrivare alla vetta significa poter poi tornare al campo base, che è poi il vero fine di ogni scalata.