Torino, Primavera 2022
È una lunga storia, ora felice, ora malinconica, quella tra la Juventus e le coppe internazionali, soprattutto la Champions League, che un tempo si chiamava Coppa dei Campioni: la più ambita, la più perduta. I bianconeri possono vantare il record dei sei titoli UEFA conquistati, ma continuano a piangere e rimpiangere il trofeo dalle “grandi orecchie”, che non arriva a casa di Madama dal 1996, con la vittoria, all’Olimpico di Roma, contro l’Ajax ai rigori. L’altro successo, quello del 29 maggio 1985, con il Liverpool, rigore di Platini, allo stadio Heysel di Bruxelles, va esclusivamente ricordato per la strage dei sostenitori juventini: 39 morti, travolti dalla ferocia degli hooligan inglesi. Fu la notte della tragedia, del dolore, del sangue: di una ferita che resterà per sempre aperta. Il calcio, quel giorno, smarrì, definitivamente, la propria innocenza. E noi siamo ancora qui, e lo saremo per sempre, a rendere omaggio alle vittime di quell’assurda follia. Le immagini sono tante, da tifoso e da inviato speciale. Le tante coppe perse in finale, purtroppo. Mi sovviene, soprattutto, il 25 maggio 1983, ad Atene. Sembrava, sotto tutti i punti di vista, la cronaca di una vittoria annunciata: troppo forte la Juve del Trap rispetto all’Amburgo. In campo i Mundial azzurri dell’anno prima in Spagna, con in più altri due fuoriclasse celebrati: il francese Michel Platini, che l’Avvocato Agnelli paragonava al campione argentino Adolfo Pedernera, e il polacco Zibì Boniek. Invece, ecco il pallone dimostrare – per l’ennesima volta – di non essere una scienza esatta, che niente deve essere dato per scontato, che il football, come intuì Sartre, è per davvero una “metafora della vita”. I tedeschi vinsero 1-0, in virtù di una rete di Magath, un tiro da lontano. Sulla Vecchia Signora scese il buio, fine delle trasmissioni e degli orizzonti di gloria. Ma ci sono stati, e ci mancherebbe, anche tanti momenti lieti, indelebili, coppe alzate al cielo di un delirio collettivo. Mi rivedo, ad esempio, il 26 novembre ’96, a Tokyo, finale intercontinentale contro il River Plate di quell’asso elegante di Enzo Francescoli: 1-0 per la Juventus grazie a una meraviglia estetica di Alessandro Del Piero. Secondo trofeo portato a casa, dopo quello dell’85, ai rigori, contro gli argentini dell’Argentinos Juniors.
È una lunga storia, ora felice, ora malinconica, quella tra la Juventus e le coppe internazionali, soprattutto la Champions League, la più ambita, la più perduta. Già, le coppe in bianconero: mistero senza fine bello!
Da ragazzo andavo in curva Filadelfia, soprattutto con il mio amico Giancarlo. Lui ammirava Roberto Bettega, io impazzivo, sì impazzivo, per Pietro Anastasi. Nel 1971 i bianconeri persero la Coppa delle Fiere, alla sua ultima edizione prima di diventare UEFA, senza conoscere una sola sconfitta. La doppia finale con il Leeds terminò 2-2 al Comunale e 1-1 in trasferta: vittoria degli inglesi per la regola dei gol segnati fuori casa, che valevano il doppio. Una beffa incredibile! Da non crederci…Recupero, nella mia memoria, anche la sfida, semifinale di Coppa dei Campioni, con il Benfica, nel 1968. 2-0 per loro a Lisbona e 1-0 sempre per i lusitani a Torino: un’autentica prodezza su punizione del formidabile Eusebio, uno dei più forti giocatori di tutti i tempi. Un campione che ho avuto, da cronista, la fortuna di conoscere, apprezzare e intervistare. Era, quella, la Juve che schierava, soltanto per i match internazionali, l’ala svedese Roger Magnusson ed era allenata dal paraguaiano Heriberto Herrera, tra i primi profeti, con il suo “movimiento-movimiento”, del calcio totale, dove contava il gruppo e non la “stella”. In porta si esibiva un mio beniamino: il portiere Roberto Anzolin, elegante, perfetto nelle uscite e nei voli da un palo all’altro, chiamato da Vladimiro Caminiti, il poeta di Tuttosport, il “piccolo angelo”. Già, le coppe in bianconero: mistero senza fine bello! Tanto per parafrasare Guido Gozzano e Gianni Brera…