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Il contatto degli occhi col reale

di Carola Allemandi

Appunti per una Torino fotografabile

Torino, Primavera 2023

Dire che un soggetto è “fotografabile” significa dire che esistono, in potenza, immagini in cui può essere rappresentato e comunicato: allo stesso tempo può significare che in qualche modo meriti di essere fotografato, perché possiede qualità tali da renderlo degno di comparire ed essere visto. Torino ha recentemente dato prova di quanto questo attributo le calzi a pennello a proposito della mostra dell’artista internazionale JR a Gallerie d’Italia, in cui attraverso i droni è stata immortalata dall’alto Piazza San Carlo, nell’atto di contenere le cinque gigantografie dei bambini profughi protagonisti dell’operazione. Il messaggio dell’opera è stato veicolato, quindi, anche grazie alla cornice architettonica in cui è stata realizzata, ovvero grazie alla “fotografabilità” di uno dei luoghi più noti della città. Cosa succede, però, se Torino diventa anche Barriera di Milano, Santa Rita, Lucento? Quali e quante fotografie in potenza contengono i quartieri meno battuti? Esiste un genere di fotografia che viene generalmente definita “da cartolina”, modo per descrivere quelle immagini stucchevoli dal contenuto prettamente turistico sui punti più attraenti di un luogo, e che difficilmente risultano essere immagini di un qualche valore fotografico.

E si incunea negli angoli di un cuore che, per non apparire di tenebra, va solo visto con la luce giusta

Negli anni Novanta il fotografo torinese Piero Ottaviano ha cercato di portare Torino e il suo grado di fotografabilità in cartoline che andassero oltre il loro senso comune, ovvero immortalando Torino da fotografo: in bianco e nero, in pellicola, nelle immagini si vedono sì i punti salienti di Torino, ma per una volta raccontati da un occhio che ha bisogno di essere saziato diversamente da quello comune. Una finestra al primo piano della Cavallerizza diventa veicolo per vedere la Mole onnipresente da un angolo buio e nascosto; Piazza Carignano, sotto la neve, vede un solo viandante capace di attraversarla frettoloso. Queste cartoline si trovano ancora in tutte le edicole della città, e come piccoli testimoni latenti raccontano non solo i luoghi e l’architettura, ma suggeriscono lo sguardo inedito con cui desiderano essere scoperti. A questo proposito, anni fa – era il 2005 – era stata organizzata una mostra alla GAM intitolata 6 X Torino, in cui erano stati chiamati sei autori di rilievo internazionale – da Gabriele Basilico a Mimmo Jodice – a interpretare i cambiamenti in corso nella città in vista dei Giochi Olimpici Invernali. Mai come allora i dissuasori sferici di cemento hanno assunto un valore iconografico tanto nobile e, attraverso di loro, Piazza Vittorio. Poco è rimasto da allora se pensiamo all’immagine anonima che ha rappresentato Torino per l’Eurovision, con lo slogan “Torino, che spettacolo!”. Dal Monte dei Cappuccini all’ora blu – ovvero in quel momento in cui, la sera, si accendono le luci dei lampioni e si crea una sospensione tra la luce calda delle illuminazioni urbane e quella fredda del cielo che va scurendosi – Torino è una cartolina che ci racconta che è bello vedere la città dall’alto, da un punto facilmente raggiungibile perché si vedono i monumenti e le piazze e perché dietro ci sono le Alpi. Il che è corretto e funziona se l’iconografia non staziona troppo su questo aspetto, e si incunea negli angoli di un cuore che, per non apparire di tenebra, va solo visto con la luce giusta. Torino è fotografabile a qualsiasi ora, da qualsiasi punto: tutto lo è. Il fotografo deve mettersi nei panni del viandante di Robert Frost, per poter anche lui raccontare un giorno che “due strade divergevano in un bosco ed io | io presi la meno battuta | e questo ha fatto tutta la differenza”.