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Sentenze granata

di Gian Paolo Ormezzano

Come i veri maestri

Torino, Estate 2022

Fa caldo, ho 87 anni, sto ancora sotto scia di un covid lungo, infame e criminale (mi ha tolto anche il gusto delle ostriche); come sempre dal 1949 il mercato del Toro non mi soddisfa, Torino Magazine mi offre libertà totale di tema e allora parlo o meglio (megliooo???!!!!) scrivo di un’orrida creatura: me stesso. Ora, qui, o mai più. Neanche troppo tempo fa è venuta a Torino per intervistarmi su non-so-più cosa una brava e bella giornalista, Giorgia Cardinaletti, poi assurta al cielo del TG1 per tutto il mondo. Mi ha chiamato “maestro”, le ho rifilato subito Alberto Arbasino, buonanima, e il suo iter del giornalista italiano: “brillante promessa – talento confermato – venerato maestro – solito stronzo”. È stata l’ultima a prendermi sul serio, al di fuori si capisce di questa pubblicazione e magari alcuni lettori. Ma qui, in questa pagina, su input indiretto di un amico defunto da poco, Gianni Clerici (lui, sì, quello del tennis) mi permetto di andar dentro alla parola “maestro”, che nel nostro mestiere pare si usi ancora. Io ho conosciuto bene tre maestri, tutti e tre scomparsi, tutti e tre Gianni: Brera, Mura, Clerici. Se davo del maestro a Brera lui mi toglieva non solo il saluto, ma tutta l’amicizia e mi rimandava a fare compagnia a quei suoi soldati. Essì, quando il 12 luglio1982 (Italia campione del Mondo di calcio il giorno prima in Spagna) alla dogana di Linate, volo Madrid-Milano, camminavo con lui parlando come quasi sempre di vini, un tipo gli gettò le braccia al collo urlando: «Gianni, siamo forti!», e lui gelido gli disse: «Dietro i forti vanno a cagare i soldati». Solidarizzai con il tipo e Brera mi mandò dietro ad un forte. Gianni Mura se gli davo del maestro, lui fra l’altro con dieci anni meno di me, mi sputava addosso e faceva pure bene. Gianni mi ha telefonato la sera del 20 marzo 2020, dicendomi che si fermava ancora a Senigallia – dove con la moglie Paola abitava la casa di Emanuela Audisio (la migliore giornalista italiana) – a guarire del tutto da un certo male. Guarire da un male che, lui sapeva ma non me lo volle dire esplicitamente, nella notte lo avrebbe ucciso. Mi telefonò Emanuela la mattina dopo: Gianni era morto, Gianni che poche ore prima mi aveva salutato chiamandomi con una parola speciale di un certo nostro lessico estremo, quasi a farmi capire qualcosa. Gianni Clerici amava essere chiamato maestro per divertirsi a spese di chi lo aveva così orpellato: lo tramortiva di battute, erudizione, cortesia, ironia. Specificava casomai di essere maestro di tennis, il che era persin vero, lui che era una sorta di “federernadaldjokovic” per scrittura e parole.

Ma qui, in questa pagina, su input indiretto di un amico defunto da poco, mi permetto di andar dentro alla parola “maestro”, che nel nostro mestiere pare si usi ancora

Lo ricordo muto una sola volta. Facevamo, lui e Rino Tommasi ed io, Fair Play in diretta televisiva; si parlava di tutto lo sport, non soltanto del tennis, io chiudevo raccontando una mia barzelletta. Una notte andai contro Berlusconi, padrone in incognito anche di quell’emittente, che voleva impormene una sua, quasi tetra. Quella sera era stato nostro ospite un dirigentone sportivo, nemico di Gianni e di Rino; Gianni teneva sempre in mano un foglio, a trasmissione finita Rino mi disse, grave e anche greve: «Mi hai deluso, sei un fifone». Stupefatto chiesi il perché, Gianni disse: «Colpa mia, non ti ho detto niente». Il foglio era quello di un conto d’albergo pagato per la bella del dirigentone con soldi federali, io dovevo chiedere a Gianni di quel foglio, lui fingendo riluttanza doveva passarmelo, io dovevo leggere, stupirmi, accusare. Ma Gianni, vaporoso e svagato come i veri maestri, si era scordato di preavvisarmi del copione.