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Sentenze granata

di Gian Paolo Ormezzano

1988 – 2018: i ricordi di un granata

Torino, speciale 30 anni

Il grande Borges ha scritto uno straordinario racconto in cui un diciamo intellettuale, certo Menard, si diletta a ricopiare continuamente e fedelmente il Don Chisciotte di Cervantes, trascrivendo proprio del poema sillaba dopo sillaba, parola dopo parola, virgola dopo virgola. Sostiene, questo signor Menard borgesiano, di scrivere in realtà ogni volta un poema nuovo, perché cambia il tempo della scrittura. E cioè scrive in un certo modo di un certo mondo e riscrive lo stesso testo dopo che è passato del tempo (quanto non importa: ogni particella di tempo è divisibile in miliardi di iperparticelle). Ciò significa, in breve, scrivere due testi diversi. Scrivere oggi che Don Chisciotte era spavaldo e scrivere domani che era spavaldo significa scrivere due cose diverse, perché domani c’è un altro mondo intorno all’hidalgo, e quindi al testo. Un altro mondo a condizionarlo, ambientarlo, cambiarlo.

Il testo si fa camaleontico; formalmente è sempre lo stesso ma acquisisce le coloriture del tempo nuovo: Dulcinea che sospira d’amore, lo scudiero Sancho che borbotta emettono gli stessi sospiri, gli stessi borbottii, ma anno dopo anno, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, nanosecondo dopo nanosecondo cambia il loro tempo e dunque cambiano le cose stesse, le persone stesse ambientate nel tempo. Dunque spartendo nel mio piccolo l’immenso Borges e la sua tesi sull’opera, e l’operazione anzi svolta dal suo Menard, se scrivessi, se riferissi le stesse cose, sputassi le stesse mie sentenze ed esibissi le mie emozioni mentre intorno e intanto cambia il tempo, cambiano i tempi, scriverei qualcosa di nuovo e di mio sul Filadelfia, anzi per la precisione su di me e il Fila, o sul Toro che è quasi la stessa cosa (il Fila sta al Toro come la Mecca all’Islam). Figuriamoci se non cambiano intanto le vicende del Toro, che nel 1988, trent’anni fa, trent’anni per me di toritudine (Marquez), finisce settimo in serie A ma l’anno dopo finisce quartultimo e scende in serie B.

Dunque spartendo nel mio piccolo l’immenso Borges e la sua tesi sull’opera, e l’operazione anzi svolta dal suo Menard, se scrivessi, se riferissi le stesse cose, sputassi le stesse mie sentenze ed esibissi le mie emozioni mentre intorno e intanto cambia il tempo, cambiano i tempi, scriverei qualcosa di nuovo e di mio sul Filadelfia

Cambiamenti anche profondi nei fatti particolari, nelle vicende spicciole, insomma cambiamenti all’ennesima potenza, dovuti alla loro essenza che muta e non solo al cambio del fondale chiamato tempo che li circonda e li avvolge e li condiziona. Con tutto quello poi che di variegato, di follemente, di assurdamente o bizzarramente nuovo il Toro ha continuamente creato, sperimentato, vissuto, offerto, imposto, ammollato, iniettato con le sue vicende, splendide o balorde, dentro a se stesso e ai tifosi, dentro lo storico Fila, il vecchio o il nuovo che sia. Dentro di me, si capisce.

E insomma, disattendendo dopo sessantacinque anni di giornalismo il tema assegnatomi, il reportage affidatomi, il classico compito rifilatomi di andare, vedere, annotare, scrivere, trasmettere e insomma far sapere, con l’alibi sommo di poter fare, io scrittorucolo, il Borges, scrivo (trascrivo da me stesso) la medesima cosa, quella che si dice in un certo modo ma che il tempo intanto ha permeato cambiandola: essere cioè il Torino, anzi il Toro, o il Filatempio se vi viene più facile ancorarvi a un che di concreto (o il Fila), qualcosa di diverso da tutto il resto del mondo del calcio, ma che dico del mondo del calcio? Dico del mondo tutto dello sport, ma che dico del mondo tutto dello sport? Dico del mondo in assoluto e di ogni e così sia perché così è.