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Silvio Pellico, rivoluzionario e poeta nel santuario della Consolata

A spasso per Torino

di Sandro Cenni & Lando Moglia

Primavera 2018

Procedendo in via della Consolata verso corso Regina, svoltando a destra si entra nella piazzetta. Dopo la Caffetteria, famosa per il ‘bicerin’, c’è quella magnifica insegna dell’Antica Erboristeria Rosa Serafino; lì si entra sia per immergersi nel profumo delle spezie che per l’acquisto di erbe medicinali e di un tè dall’ambra particolare. L’ingresso della chiesa è di fronte, entrarvi non fa di sicuro danno. La devozione dei torinesi verso ‘la Consolà’ è sentita; lo dimostrano i numerosi ex voto. Un busto bronzeo di Silvio Pellico ci dà modo di ricordare questo poeta e scrittore, illuminista e moderato rivoluzionario, che nei suoi ultimi anni fu devoto frequentatore di questa chiesa.

Pellico nasce a Saluzzo nel 1789, trascorre la giovinezza nell’ambiente culturale milanese. Amante delle lettere, frequenta Giovanni Berchet, Vincenzo Monti e diventa amico di Ugo Foscolo, che aiuta anche finanziariamente, soprattutto dopo l’esilio di Ugo a Londra. Con lui, continua un rapporto epistolare quasi da amante geloso, fino a scrivergli di essere dispiaciuto che la signora Quirina abbia ricevuto, a Firenze, due lettere sulla sua salute e lui nulla.

Fu forse il primo tenero e innocente amore giovanile, più che il V Canto dell’‘Inferno’ col suo ≪Amor ch’a nullo amato amar perdona≫, a ispirare al Pellico la ‘Francesca da Rimini’. Tragedia in versi, che fu rappresentata per la prima volta con successo la sera del 18 agosto 1815 al Teatro Re di Milano, interpretata da Carlotta Marchionni. L’opera, per lo slancio patriottico che emergeva in alcune sue parti, ottenne vasti consensi, soprattutto tra gli intellettuali antiaustriaci. La storia narra un fatto di sangue avvenuto nel 1223: Francesca era la figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, andata in sposa a Gianciotto Malatesta da Rimini. Fu da costui uccisa perché sorpresa in tresca amorosa col cognato Paolo, che le cronache del tempo descrivono bello e prestante. Il pittore Jean-Auguste Ingres rappresenta i due cognati in tenero atteggiamento, spiati nell’ombra da un Gianciotto sciancato che impugna la spada. Lo scrittore visse poche ma intense e tormentate storie d’amore nella sua vita. La prima per Teresa Marchionni, contrastata dalla famiglia di lui e che s’interruppe bruscamente ancor prima dell’arresto del poeta nel 1820. La seconda con la nobildonna Cristina Trivulzio, che andò però sposa al conte milanese Archinto. I due innamorati si rividero nel 1836, ma dovettero attendere ancora undici anni dopo il divorzio di lei per stare definitivamente insieme.

Carlo Felice Biscarra, ‘Arresto di Silvio Pellico e Piero Moroncelli’

Nel santuario della Consolata, un busto bronzeo di Silvio Pellico ci dà modo di ricordare questo poeta e scrittore, illuminista e moderato rivoluzionario

 

A Milano Pellico frequenta con Piero Maroncelli i circoli culturali, culla delle idee risorgimentali, tanto che, immerso in questo ambiente di ideali libertari e progressisti, si iscrive alla Carboneria. Scelta che agli austriaci non piacque. ≪Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita (un monastero diventato carcere NDR). Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora≫.

Dieci anni da recluso nello Spielberg, che lui descriverà ne ‘Le mie prigioni’ con quella prosa pacata e serena che invita alla lettura, dove narra la durezza del carcere raccontando con docile fierezza le brutture della reclusione; come quella riservata all’amico Piero Maroncelli, al quale non sono stati tolti i ferri ai piedi, nonostante la cancrena, fino al momento dell’amputazione della gamba. Episodio narrato da Pier cantastorie astigiano con una ballata: ≪Silvio Pellico tranquillati la tua gamba tagliata non sarà, bensì quella di Maroncelli Piero (coro) e dallo Spielberg uscirai, (coro) e dallo Spielberg uscirai… oh yeah!≫.

Carlo Felice Biscarra, ‘Arresto di Silvio Pellico e Piero Maroncelli’

Sono però descritti anche momenti di sollievo vissuti nella fortezza: il canto di una reclusa, la Maddalena, che giungeva dal cortile, fino a quando non la sentì più; l’umanità di alcuni secondini, pur incapaci di mancare al loro dovere, che eseguivano senza durezza di cuore; le visite della Zanze, figlia sedicenne di un secondino, che veniva a portagli un caffé fatto da lei e aveva quel benedetto vizio di prendere la mano dello scrittore e stringergliela, senza accorgersi che a lui la cosa piaceva ma nello stesso tempo lo turbava. Una sera venne a lui piangente per un dispiacere amoroso, buttandogli le braccia al collo e inondando il suo volto di lacrime. ≪In quest’amplesso non v’era la minima idea profana. Una figlia non può abbracciare con più rispetto il suo padre. Se non che, dopo il fatto, la mia immaginativa ne rimase troppo colpita. Quell’amplesso mi tornava spesso alla mente, e allora io non potea più pensare ad altro≫.

Il 1° agosto 1830 arriva finalmente la concessione della grazia. ≪Uscita dal carcere. Fu messo a ciascuno di noi un tabarro da soldato sulle spalle ed un berretto in capo, e cosi, coi medesimi vestiti da galeotto, ma scatenati, scendemmo il funesto monte≫. Dalla fortezza dello Spielberg, presso Brno nella Repubblica Ceca, inizia il viaggio di ritorno verso l’Italia. A Vienna chiedono di fermarsi un giorno: ≪Mentre eravamo ne’ magnifici viali di Schonbrunn passo l’Imperatore, ed il commissario ci fece ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone non l’attristasse≫. Gli fa eco Jannacci: ≪E sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re≫.

Giunto a Torino in via Barbaroux 20, abbracciato dalla famiglia, venne convinto a scrivere quella che sarà la sua opera migliore: ‘Le mie prigioni’. Dice l’autore che, già nelle prime due settimane che seguirono alla pubblicazione del libro, fu tacciato di tradimento, passando da rivoluzionario a codino, sia per l’atteggiamento ritenuto troppo tenero verso gli austriaci, che per il suo lavoro presso la nobildonna Marchesa di Barolo, profondamente cattolica, tanto che alcuni amici incontrandolo si voltavano dall’altra parte per non salutarlo. Il libro, tradotto in più lingue, ebbe notevole successo in Europa e nel resto d’Italia.

 

La durezza delle esperienze dei condannati, cosi descritte, toccò profondamente l’opinione pubblica europea, tanto da far dire a Metternich, ministro della guerra austriaco, che aveva fatto più danno quel libro di una battaglia perduta.