Sanno alternare il fioretto ai cazzotti, i tennisti del futuro. Ne hanno offerto un saggio Daniil Medvedev e Dominic Thiem nella finale conclusiva della prima COVID Season. Inutile aggiungere i più fervidi voti augurali che sia anche l’ultima. Londra, novembre 2020, torneo dei campioni, Masters, oggi ATP Finals. 50 edizioni dopo… Si sono dati battaglia, l’Orso russo e il Terminator austriaco, sottraendosi allo stereotipo dei picchiatori cronici, recidivi, impenitenti. Si sono mostrati irriducibili, come il tennis esige che siano, ma senza permettere al match di sconfinare in una rissa da angiporto. Se le sono date ragionando, pensando, variando geometrie e colpi. Fosse sempre così, forse il tennis sarebbe salvo.

Forse… E potrebbe affrontare con più serenità il prossimo addio di chi ne ha tracciato la storia degli ultimi 20 anni. Federer. Nadal. Poi Djokovic, il più giovane tra i vecchietti. È un’eredità eterogenea quella che i 12 anni londinesi hanno consegnato a Torino, prossima fermata di un viaggio lungo ormai 50 anni che ha coinvolto 15 città, da Tokyo (vittoria di Stan Smith), dove tutto prese forma, al Madison Square Garden di New York, in una Manhattan che gioca a tennis nei piani alti dei grattacieli (13 anni, con vittorie di Lendl, tre di McEnroe, due di Borg), per fare sosta poi a Francoforte e Hannover nel decennio del gran tennis tedesco di Becker (vittorioso tre volte) e Stich (una), e infine volare a Shanghai, quando l’ambasciatore Federer (due successi sul campo con il tetto a forma di margherita) ricevette l’incarico di far innamorare milioni di cinesi.
C’è un aspetto moderno, nel cospicuo lascito, e tanta storia da non dimenticare. Basti ricordare che negli ultimi quattro anni le Finals si sono identificate con l’unico evento in grado di sottrarsi alle regole che ancora governano il circuito. Solo nel torneo dei maestri l’appartenenza al Club degli Immortali – insieme il più esclusivo del nostro sport e il titolo nobiliare di più alto conio che vi sia – non sembra in grado di irradiare oltre la sua luce sfolgorante, che fu stella cometa di tutto il movimento. Erba, cemento e terra sono i tre elementi ancora governati dal vecchio sistema, dove è certo azzardato prevedere una finale a Wimbledon senza i ghirigori di Federer, una volata sotto i 42 gradi australiani alla quale non partecipi Djokovic, e un Roland Garros che, d’improvviso, dopo 13 trofei e 103 match vinti (solo due le sconfitte), trovi un sostituto di Nadal.

Laver Arena di Melbourne, ATP 2021 © Quinn Rooney
Ma il quarto elemento, il tennis indoor, appartiene ormai al nuovo tennis, e già accoglie le sfide che indicheranno i futuri padroni del vapore, i nuovi governanti. Ha chiuso le porte ai Favolosi quattro anni fa, concedendosi alle lusinghe di Dimitrov, poi affidandosi ai giovani in odore di predestinazione, Sascha Zverev, Stefanos Tsitsipas e all’ultimo giro l’Orso Medvedev (tranquilli, il nickname non fotografa il suo carattere, è che Medved significa proprio orso). Volto da giovane intellettuale russo degli anni Quaranta, l’espressione stranita fra disagio e speranza, Daniil – a sentire Gilles ‘Geppetto’ Cervara, da Cannes, che ne è il coach e il costruttore – dispone sul piano dell’inventiva di risorse infinite. «È uno scacchista nato. Può cambiare spartito decine di volte in un match e mettere a disagio chiunque». Non sempre bellissimo, forse. Niente a che vedere con Sua Levità Federer. «Ma un vero maestro nell’incasinare la vita altrui».


Grazie a loro, ventenni sempre più simili a pivot del basket, la storia va avanti. Ed è una storia importante, che raggruma gli eventi fondanti del tennis attuale, per le vicende che si sono intrecciate dall’avvio dell’Era Open, nel 1968, a oggi. Riguarda l’ingresso del tennis nella modernità. L’addio allo sport per pochi intimi. L’avvento di un gioco per tutti che ha spostato gli equilibri internazionali per avviarsi a una competizione in cui non esistono più quarti e semifinali riservati ai molto forti, ma la sconfitta si nasconde in ogni anfratto del tabellone, pronta a prendere forma a ogni piccolo cedimento, o disattenzione, o sottovalutazione di avversari cresciuti nei muscoli e nei centimetri. Ne fu architetto un tennista nato con la passione per il baseball, fin quando un gran colpo di mazza ricevuto sul naso ne cambiò i connotati e gli approdi sportivi. Jack Kramer, il nome. O meglio, John Albert, ma lui preferiva Jack, un nome che riecheggiava – già nel suono – la rapida consistenza dei suoi colpi, e più ancora del suo modo di prendere le decisioni. Era un ragazzo ossuto, grosso di naso, un orecchio a sventola (uno solo) che quando tirava vento sembrava sospingerlo di bolina. Si presentò ai suoi, un giorno, per dire di non chiamarlo più John. Sarebbe stato Jack. Essenziale, come sempre.
Fu il numero uno a cavallo della seconda guerra mondiale, perfezionò schemi di gioco in base alle formule matematiche di Cliff Roche, un ex ingegnere automobilistico. Aveva un servizio che sembrava uno sparo. «Se batto e scendo a rete attaccando forte in lungolinea, la difesa avversaria sarà sempre in difficoltà. Su dieci tentativi, mi dicono le statistiche, otto volte il punto è mio». Nasceva così il serve and volley, e con quello Jack si mise il tennis ai piedi. Si distingueva anche per la sobrietà dei comportamenti, memore di una pubblica cazziata che il padre gli impartì nei primi anni del suo cammino. Indispettito per una chiamata dubbia, Kramer offese in modo sanguinoso l’arbitro di linea di un torneo a LA. Il padre lo sentì e si precipitò in campo, parlò a lungo con l’arbitro e chiese la squalifica del figlio. Fu accontentato. Jack ne prese atto e non osò più dire una parola fuori posto.
Nel 1943 giocò la prima finale Slam in un’edizione dei National Championships riservata ai soli tennisti americani. A batterlo in quattro set fu l’amico Joe Hunt, che di lì a poco perì alla guida del suo aereo durante un’esercitazione. Non fu il solo. La guerra non risparmiò il tennis. Henkel il tedesco cadde a Stalingrado, Von Cramm fu ferito e poi perseguitato in patria dalla Gestapo, Borotra venne arrestato come collaborazionista, Wimbledon trasformato in un centro della Civic Defense e più volte bombardato, il Roland Garros fu scelto dai tedeschi come campo di concentramento. Finita la guerra, Jack si trovò privo di concorrenti alla sua altezza. Vinse gli US National nel 1946 su Tom Brown Jr e di nuovo nel 1947 su Frank Parker, l’anno che gli consegnò – direttamente dalle mani della futura regina Elisabetta – il trofeo di Wimbledon. Fu proprio a lui, pare, che la giovane principessa confessò il disagio per quello sport di racchette e palline. «Non so che dire, certo lo troverei più divertente se si potesse giocare a cavallo».

Il passaggio al professionismo, nel 1948, lo vide presto nel duplice ruolo di giocatore e organizzatore. Ci seppe fare. In pochi anni il meglio del tennis era in America, sotto le insegne professionali. Le sue doti tornarono buone nei mesi dell’insediamento del tennis Open. Fu la federazione internazionale a rivolgersi all’antico nemico per organizzare un circuito che riunisse dilettanti e professionisti. Jack fondò il Grand Prix, vi inserì i tornei del Grand Slam, e volle un super torneo per chiudere la stagione e premiare i migliori. Fu quello il Masters. Un premio per i più forti. Metteva 50mila dollari in palio. Come il Roland Garros. Ma non fu quella la sua ultima creazione… Aveva reso forte la federazione internazionale, si mise all’opera per creare una controparte che potesse sedere allo stesso tavolo.
Organizzò i giocatori, li sensibilizzò, li riunì. Nel 1972 l’ATP era cosa fatta. Non per nulla la chiamarono il sindacato. L’unico al mondo che si occupasse dei problemi dei ricchi. Oggi il sindacato è al governo. Alla federazione sono rimasti i Major, la Davis l’ha ceduta alla Kosmos di Piqué, difensore per il Barcellona e attaccante come manager. È il segno dei tempi, ma non riguarda Torino e la sua fresca conquista. I prossimi cinque anni tratterranno il tennis di fine stagione in Europa, non lontano dalle abitazioni dell’antica e della nuova governance. Anche argentini e americani hanno ormai la residenza a Monte Carlo. La scelta ha fatto felici tutti. Ma non basta. Torino ha compiti che vanno oltre quello di dare forma a una sede prestigiosa e accogliente. Sul campo, i prossimi cinque anni saranno quelli del definitivo passaggio di consegne. Federer (sei ATP Finals) tenterà di giocare il torneo dei maestri una volta ancora, Djokovic di vincerlo per salire anche lui a sei, e Nadal di non lasciare la casella (l’unica nel suo straripante palmares) in bianco. Ma nessuno di essi giocherà ancora cinque stagioni. Saranno i più giovani al centro delle ATP Finals torinesi. Quelli che l’hanno già vinta, Medvedev, Tsitsipas, Zverev. Quelli che se la sono appuntata tra le cose da fare, Thiem, Rublev, Shapovalov.
E quelli che se vincono facciamo festa come per uno scudetto, Matteo Berrettini, che nei primi dieci ci sta da un anno e le Finals le ha già giocate (battendo Thiem, primo italiano a ottenere una vittoria, impresa che non riuscì a Panatta nel 1975 e a Barazzutti nel 1978), e Jannik Sinner, che nei primi dieci potrebbe arrivarci presto.

L’Italia spinge verso Torino un tennis prezioso, per l’età e il talento dei suoi ragazzi. Matteo ha 24 anni, Sinner 19, Musetti ancora meno, 18. Tre carte da giocare per un All In a tre colori.
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(Foto: GETTY IMAGES)