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La città e il suo futuro

di Paolo Griseri

Zona economica speciale? No grazie

Torino, Inverno 2022

Cercasi torinesi disposti a credere nel futuro della città. Merce rara, purtroppo, in questo periodo. Non perché non ci sia qualche motivo per scommettere in positivo ma perché anche le possibilità di ripresa si perdono nel bru bru del piangersi addosso. Naturalmente non si parla di coloro, e sono tanti, che hanno ragioni più che fondate per lamentarsi. Chi fatica ad arrivare alla fine del mese non può anche preoccuparsi del futuro della città. Deve pensare al suo personale, di futuro, e non è semplice. Ma le famose classi dirigenti torinesi? Che fine hanno fatto? Quale capacità di visione hanno mantenuto? Le risposte sono talvolta disarmanti. Emblematica è la proposta di una parte del mondo economico di creare a Torino una “zona economica speciale”, come tante ce ne sono nelle aree economicamente depresse del paese. Naturalmente, e per fortuna, sarà molto difficile che questa curiosa idea si realizzi. Perché, come ha giustamente sottolineato il presidente dell’Unione Industriali Torino Giorgio Marsiaj: «Torino è una delle capitali dell’industria italiana. Qui ci sono Stellantis, Iveco, Comau, Alstom, Alenia e Leonardo». Difficile dunque immaginare di ottenere facilitazioni fiscali come fossimo a Matera. Non può essere dunque questa la strada per attrarre nuovi investimenti. Sarebbe come alzare bandiera bianca, dire agli investitori: «Venite da noi che siamo in difficoltà e si risparmia». Quali aziende e di quale qualità potrebbero rispondere a un appello di questo genere? Quel che più colpisce in questi atteggiamenti è la ricerca della scorciatoia per arrivare dove avremmo tutte le possibilità di giungere senza aiutini. Nello stabilimento di corso Francia Leonardo ha realizzato il 40 per cento della stazione spaziale Iss, uno dei gioielli mondiali della tecnica, competenze che non si inventano con i piani Marshall 4.0. Ovviamente che questa sia un’eccellenza torinese ce lo diciamo tra noi, perché pochi si preoccupano di comunicarlo all’esterno. Chissà in quale posto esotico e sofisticatissimo si costruiscono i moduli della città nello spazio… Questi atteggiamenti autolesionisti non riguardano solo la manifattura, l’hardware del nostro sistema economico. Coinvolgono anche il software, se vogliamo dirla con i latini, il panem e i circenses.

Non perché non ci sia qualche motivo per scommettere in positivo ma perché anche le possibilità di ripresa si perdono nel bru bru del piangersi addosso

Una delle leggende più gettonate nei salotti buoni della città in queste settimane è quella del prossimo scippo delle ATP. Basata sul fatto che a Milano si sta realizzando il nuovo stadio dell’hockey per le Olimpiadi del 2026. Che naturalmente diventerà il più moderno d’Italia, esattamente come è stato per il Pala Alpitour dopo i Giochi torinesi del 2006. Nulla fa dire oggi che dopo il 2025 le ATP Finals saranno trasferite in Lombardia. Nulla tranne le dicerie dei milanesi sempre pronti a esagerare i loro meriti e la credulità dei torinesi, sempre pronti ad assecondarli. Nel frattempo dovremo darci tutti da fare per sostenere un evento che non riguarda solo la Torino ricca, per il semplice motivo che ha ricadute in tutta la città. E creare le condizioni per garantire altri 5 anni di grande tennis dopo il 2025. Curiosamente negli anni che precedettero l’assegnazione delle ATP Finals a Torino, una parte delle classi dirigenti torinesi si dedicava allo sport più diffuso del tempo: denigrare l’esperienza olimpica del 2006 favoleggiando “dell’enorme spreco di denaro pubblico” che avrebbero rappresentato. Nella lista delle opere inutili era compreso anche l’attuale Pala Alpitour. Oggi è noto che senza quella struttura non sarebbero arrivati a Torino né le finali ATP né la fase finale di Eurovision. Due risultati che giustamente l’amministrazione Appendino ha poi rivendicato con soddisfazione. Oggi potremmo provare a mettere a frutto l’esperienza del recente passato. Provare a progettare il rilancio della città lasciando perdere i piagnistei su quel che non funziona o potrebbe funzionare meglio. Una classe dirigente che si lamenta, diciamolo, è una classe dirigente che abdica alle sue responsabilità.

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