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Torino, Primavera 2023
Se esistesse un indice dell’autolesionismo Torino in questi mesi sarebbe ai massimi. In poco tempo la città ha offerto due esempi di quello che un tempo si chiamava tafazzismo, dal nome del personaggio televisivo che “ama colpirsi l’inguine con una bottiglia di plastica vuota mentre saltella”, secondo la pudica definizione di Wikipedia. Nella vita di una città sono poche le occasioni in cui si interessano alle sue vicende anche coloro che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Per Torino il Salone del Libro è una di quelle. Perché la città ha combattuto orgogliosamente tutte le battaglie per mantenerlo e garantirgli il blasone di principale appuntamento dell’editoria italiana. Alla faccia dei tentativi milanesi di fagocitarla sfruttando il fatto che buona parte dei grandi editori ha sede nel capoluogo lombardo. Torino, e soprattutto i torinesi, hanno sconfitto quel disegno e Nicola Lagioia ha saputo con grande abilità dare nuovo slancio alla manifestazione. Ebbene, al momento di individuare il suo successore, una cervellotica quanto incomprensibile gara di curricula (ne sono arrivati 53) ha sostituito l’unico sistema possibile per compiere una scelta tanto delicata: la decisione di chi ha la legittimità e la responsabilità per farlo. C’è una proprietà del Salone composta da rappresentanti politici e da imprenditori privati. Dovevano essere loro a trovare la soluzione. Anche perché la delega alle commissioni di esperti che valutano le candidature quasi mai risolve i nodi intricati. Quello dell’editoria è un mondo in equilibrio instabile, in cui la capacità di mediare e quella di innovare vanno contemperate e pesate, ed è ovvio che non si sceglie un direttore per concorso. Il secondo tafazzismo riguarda i diversi attori che hanno dato vita all’affaire Juventus. Parliamo qui non tanto dei dirigenti della società che, se colpevoli, verranno giudicati in via definitiva dalle varie magistrature.
In poco tempo la città ha offerto due esempi di quello che un tempo si chiamava tafazzismo
Quanto dell’apatico atteggiamento della città che assiste silente all’affondamento di una delle aziende che maggiormente contribuiscono al suo prodotto interno lordo. Quattro anni fa, con Andrea Agnelli premiato Torinese dell’anno, si calcolò che l’effetto Juve sui conti della città valesse circa mezzo miliardo di valore aggiunto all’economia torinese. Certo, c’era Cristiano Ronaldo, e poi il blocco degli stadi ha inciso anche su quella cifra. Ma sarebbe miope valutare la vicenda solo con gli occhi poco lungimiranti del tifo sportivo. Anche per i molti granata che abitano a Torino (e che si dice siano la maggioranza) non c’è da rallegrarsi se spariscono milioni di euro. Perché è chiaro che le migliaia di tifosi in arrivo da tutta Italia sono business anche se la partita non è di cartello. Tutto questo, come dicono gli economisti, è strettamente legato alla forza del brand. Torino è città di tradizioni culturali calviniste (che hanno certamente i loro vantaggi). Ed è abituata a osservare senza critiche scomposte l’operato della magistratura. C’è però da chiedersi in quale altro luogo una procura avrebbe potuto chiedere gli arresti domiciliari per il presidente di una squadra di calcio senza suscitare reazioni. Non solo nella Napoli di De Laurentis, ma neppure nella Milano dei cinesi. Uscire dagli abissi del tafazzismo è possibile. Indicando un grande successore di Nicola Lagioia e inaugurando un nuovo corso che tuteli il brand della Juventus. Ma, questo è il problema, si può anche fare di peggio. Riempiendo d’acqua la bottiglia di plastica con cui il noto personaggio televisivo si percuoteva l’inguine.