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La città e il suo futuro

di Paolo Griseri

La grande Torino e il valore della quantità

Torino, Primavera 2022

Trascorsi gli ultimi decenni a inseguire la qualità, ci siamo colpevolmente dimenticati l’importanza della quantità. Che è fatta di numeri ma anche di opportunità. Perché chi pesa poco conta poco, la dimensione è spesso decisiva. Questa premessa filosofica spiega perché, negli ultimi decenni, Torino ha perso importanza a livello nazionale ed europeo. Perché conta per 800mila abitanti, poco più di Palermo (con tutto il rispetto, s’intende). Questo significa che, in tutte le trattative a livello nazionale, finisce per avere un analogo trattamento del capoluogo siciliano. Certo, si potrà osservare che questa è semmai la conseguenza e non la causa della decadenza. È vero in parte. Perché, sotto un certo livello, il tanto decantato understatement torinese diventa autolesionismo. La realtà è che la Torino con 800mila abitanti è una pura invenzione statistica. Gran parte dei torinesi che hanno lasciato la città a partire dagli anni ’80 non è emigrata in località esotiche, su spiagge tropicali, all’ombra delle palme. No. Sono andati in luoghi dai nomi assai meno affascinanti: Collegno, Nichelino, Moncalieri, Settimo, Rivoli, Venaria. Hanno cioè fatto un piccolo trasloco di pochi chilometri, dove si pagano meno tasse e si usufruisce degli stessi servizi dei torinesi. Una realtà ancora più evidente oggi che, con grande lentezza, la metropolitana gli abitanti di alcune di queste località oltre il confine comunale.

Varrebbe la pena di smetterla con la finzione delle cittadine autonome. Sarebbe utile, invece, allargare l’area del comune di Torino e abolire le amministrazioni di queste località di confine, trasformandole in circoscrizioni

Così che, presto, si potrà arrivare più in fretta a Porta Nuova da Nichelino che da molti quartieri cittadini. Come risolvere questo paradosso? Una soluzione ci sarebbe, anche se indigesta per molti esponenti della politica (va detto, di ogni schieramento). La soluzione sarebbe quella di chiamare le località oltre l’attuale confine comunale con il loro vero nome: quartieri. Perché tali sono da molto tempo. Non c’è alcuna autonomia decisionale nelle scelte di un comune come Moncalieri (sia detto senza alcuna animosità verso i moncalieresi), perché quel che accade lì dipende inevitabilmente da ciò che accade a Torino. Su molti piani: trasporti, politica scolastica, sanità. Varrebbe allora la pena di smetterla con la finzione delle cittadine autonome. Sarebbe utile, invece, allargare l’area del comune di Torino e abolire le amministrazioni di queste località di confine, trasformandole in circoscrizioni. Se proprio vogliamo coccolare l’ego ferito dei beinaschesi, facciamo come a Roma, chiamiamoli municipi e non se ne parli più. In tempi di populismo selvaggio andrebbe fatto il conto di quanti consiglieri comunali, sindaci e assessori si risparmierebbero con questa operazione. Per fortuna il populismo selvaggio è al tramonto e sta travolgendo chi lo aveva cavalcato. Ma la finzione dei comuni di confine che vivono con la città senza pagarne i costi continua a resistere. Che cosa succederebbe se venissero aboliti quei comuni? Accadrebbe che Torino tornerebbe ad avere circa un milione e mezzo di abitanti, sarebbe la terza città d’Italia e per quel ruolo peserebbe nelle trattative nazionali. Tutto questo senza migrazioni epocali simili a quella che negli anni Sessanta raddoppiò in poco tempo il numero dei torinesi. Tutto questo è fantascienza? Forse. Ma l’operazione servirebbe anche a ridare un po’ di orgoglio a una città per troppi anni irretita dal mito delle decrescite felici, del piccolo è bello. Riflettiamo sul fatto che quando si tratta di dividere i finanziamenti nazionali e di attirare nuovi investimenti, piccolo è invece molto brutto. Anzi, diciamolo: è bruttissimo.

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