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Ugo Nespolo

«Torino? Un progetto ci vuole»

di Guido Barosio

Autunno 2020

UGO NESPOLO INVOCA PER LA SUA CITTÀ UNA «FIERA UNIVERSALE SULLA TORINO DEL FUTURO», DOVE LA STORIA SI POSSA CONTAMINARE CON LE ARTI E LA MANUALITÀ DEI TALENTI PIÙ GIOVANI. UN RACCONTO CHE PARTE DALLA NEW YORK DEGLI ANNI 60 CHE TANTO GLI INSEGNÒ, PER TRAGHETTARE VERSO PROTAGONISTI E VICENDE RECENTI

Lo studio di Ugo Nespolo è un vero e proprio compound dell’arte. Le severe mura esterne proteggono grandi spazi che accolgono ed espongono il suo talento: opere d’arte, anche tridimensionali, anche oltre misura, libri – alcuni preziosi, della sua collezione, altri dedicati a lui, decine e decine – foto di una carriera enciclopedica, vissuta sempre un passo avanti, curiosa e senza tempo. Perché Ugo Nespolo non lo puoi datare, il suo è un segno riconoscibile e perpetuo, invincibile perché i suoi colori sono un’alchimia sempre nuova, ideale per scenari differenti e in divenire: pittura, scultura, arti grafiche, pubblicità, teatro, cinema… Questi tempi difficili più che limitarlo lo stimolano: «Niente paura, zero rimpianti, nessun pessimismo cosmico leopardiano, niente lagne vecchia maniera. Per essere positivi converrà di certo affidarsi a visioni nuove tentando di progettare percorsi creativi lontani dalla noia dei soliti obblighi». Un approccio all’arte, e alla vita, che si legge come un tratto distintivo nella sua storia: «Sono figlio di un anarchico, il cui nome, Libero, era assai eloquente. Poco più che ventenne andai a New York ed erano viaggi interminabili, pieni di scali per poter risparmiare. Ma quello era uno scenario fondamentale, la nuova capitale dell’arte si era trasferita lì lasciando Parigi. Non era un evento casuale, gli americani vedevano la cultura come veicolo di predominio nel mondo. Poco più tardi arrivò la Pop Art con Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Robert Rauschenberg. A New York era fondamentale esserci».

Ugo Nespolo

Ma la Torino di quegli anni era un luogo dal quale fuggire?

«Tutt’altro. Anzi, Torino emanava una folle energia. A partire dai maestri, dall’università, dove, in un corpo docente di altissimo profilo, insegnavano Franco Venturi e Augusto Monti. Quella città era la capitale nazionale della sinistra – che aveva nella casa editrice Einaudi la sua eccellenza culturale – ma primeggiava anche nell’industria. La FIAT era la locomotiva del Paese, l’unica realtà italiana con 120mila dipendenti. Ma il sistema aveva punti di forza in ogni settore: i grandi gruppi assicurativi nazionali erano torinesi, come torinesi erano le due maggiori banche: Sanpaolo e Cassa di Risparmio. Oggi, purtroppo, quel contesto è venuto a mancare. Nessuna delle realtà che ho citato è ancora pienamente cittadina. Ma, negli anni Sessanta, e poi dopo, si viveva un’epoca segnata da un grande desiderio di andare avanti».

Alle istituzioni manca la capacità di circondarsi di intellettuali. Di creare un gruppo, una squadra, selezionata sulla base delle competenze. E poi questo gruppo deve essere libero di progettare, di valutare, arrivando a una sintesi, alle idee da sviluppare, al progetto

Anche nell’arte fu così?

«Certamente. Ci fu un fiorire di gallerie attentissime non solo a quello che accadeva in città, ma al mondo intero. Luoghi memorabili dell’arte contemporanea come La Bussola, Galatea, Notizie, Narciso, Il Punto, Gissi, Martano, Stein e Sperone, la più autorevole di tutte. Proprio Gian Enzo Sperone propose, primo in Italia, una mostra di Roy Lichtenstein. Le nostre esposizioni segnavano la rotta e i nostri artisti avevano rilevanza mondiale. Come il geniale Ezio Gribaudo, come i protagonisti dell’Arte Povera: Pistoletto, Penone, Boetti… Ma era anche la Torino di Italo Calvino, intellettualmente vivacissima. Senza dimenticare che, nel 1959, venne inaugurata la Galleria Civica d’Arte Moderna: la prima del nostro Paese, ricorda lo storico Viale, a essere progettata e costruita dalle fondamenta, un edificio a tre corpi concepito con criteri di assoluta modernità. Quella che oggi è la GAM avrebbe sempre ospitato, oltre alla propria eccellente collezione, mostre di assoluto rilievo internazionale».

Quale fu l’evento più significativo di quella stagione civile e culturale?

«Senza alcun dubbio Italia 61, la vera sintesi delle capacità concettuali e organizzative della città. Si celebravano i cento anni dell’Unità d’Italia e si celebravano  simbolicamente a Torino. Fu un’Expo autenticamente internazionale e, per l’occasione, venne edificato un intero quartiere nella zona sud della città, con padiglioni ed edifici di grandi architetti e con l’intervento massiccio degli artisti di punta. Il Palazzo del Lavoro di Nervi ospitò la mostra sulle potenzialità scientifiche del futuro, Fontana concepì un ambiente spaziale solcato dalla fantasia luminosa di grovigli di tubi al neon. Vennero costruite la monorotaia e l’ovovia, icone del futuro disponibile per tutti. E ancora Palazzo Vela, con le installazioni artistiche sul tema ‘Moda, stile, costume’. Il Circorama Disney venne inaugurato da lui stesso e l’esposizione ebbe quattro milioni di visitatori, tra i quali la Regina Elisabetta d’Inghilterra».

Purtroppo quel patrimonio non venne preservato…

«Esatto. Ed è una cosa che mette tristezza. Il Palazzo del Lavoro abbandonato, il Palazzo Vela ristrutturato in modo inconcepibile, ovovia e monorotaia cancellate. È stato un grande errore».

Venendo ad anni più recenti, Torino ha mantenuto la propria capacità propulsiva?

«Con azioni individuali sicuramente sì, ma è progressivamente mancata la visione d’insieme. Dal punto di vista artistico il Museo di Rivoli ha rappresentato un’eccellenza, ma poi è rimasto isolato. Con Artissima abbiamo creato una fiera di grande levatura, che ha anche aggregato, nei giorni di apertura, un movimento significativo nella città. L’idea era ambiziosa: la risposta torinese ad Art Basel. Però, se manca una lettura forte da parte delle istituzioni, se manca un progetto, non si riesce a fare il balzo in avanti, non si riesce a dare alla cultura la centralità che merita. Torino un progetto culturale forte ce l’ha avuto ancora negli anni Settanta. Ricordiamo che MITO, erede di Settembre Musica, e i Punti Verdi, il primo grande cartellone estivo di spettacoli per tutti, nacquero a Torino, per merito di quel formidabile organizzatore culturale che fu Giorgio Balmas».

Cosa manca oggi alle istituzioni?

«Manca innanzitutto la capacità di circondarsi di intellettuali. Di creare un gruppo, una squadra, selezionata sulla base delle competenze. E poi questo gruppo deve essere libero di progettare, di valutare, arrivando a una sintesi, alle idee da sviluppare, al progetto. Il compito del sindaco sarà poi quello di tradurre in risultati concreti questo lavoro. Ai politici di oggi direi: studiatevi il passato».

Culturalmente parlando, quali sono i nostri punti di forza?

«Tanti, ma non sempre il torinese sa guardarli. Pensa ai musei, ne abbiamo di splendidi, ma, soprattutto, ne abbiamo di unici, meritevoli da soli di una visita in città. Su tutti: il nuovo Museo Egizio, nel tema il più bello del mondo, il Museo del Cinema, creato da Confino in uno spazio impattante come nessun altro, la Reggia di Venaria, la Versailles italiana. Questo solo per fermarmi ai maggiori. Io sono convinto che dobbiamo smetterla con questa logorante rivalità con Milano. Le due città sono completamente differenti, come dimensioni e come levatura finanziaria, ma sono vicinissime e perfettamente integrabili. Qualcuno si scandalizza per la frase “Torino può diventare il distretto culturale di Milano”, a me vien da dire: “Magari!”».

Oggi il mondo dell’arte che stagione sta attraversando?

«La situazione non è semplice. Perché non solo si inseguono le mostre blockbuster, concepite per incassare, proponendo percorsi obsoleti tra i soliti grandi nomi immortali, ma va per la maggiore l’effetto Disney World – il concetto del parco a tema – con quei carrozzoni detti ‘mostre esperienziali’, fatti di proiezioni, ricostruzioni virtuali in plastica e cartongesso, per dare allo spettatore in passeggiata la sensazione di vivere epoche storiche passate. Allestimenti dove la pittura non c’è, dove le opere di Caravaggio, Van Gogh e Giotto sono solo diseducative riproduzioni high-definition. In parallelo il mercato è drogato, perché il prezzo fissa anche il valore artistico delle opere in omaggio al ben noto assioma ‘ciò che più costa più vale’. Par di sentire la voce querula di Andy Warhol quando sentenziava: “The good business is the best art”, o si può fremere alle dichiarazioni di Thomas Hoving, già direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, che dichiarava: “L’arte è sexy, l’arte è soldi sexy, arrampicata sociale fantastica”. Prezzi miliardari e super guidati vivono senza rapporto o raffronto di valore, cifre accettate come valori estetici assoluti».

Ma i giovani possono ancora trovare il loro spazio e, soprattutto, esistono ancora giovani di valore?

 «Io sono ottimista sul talento dei giovani, ce ne sono di molto bravi. Basta dire che non sono dotati, o che sono ‘sdraiati’ senza ambizioni. Questa è una cantilena delle vecchie generazioni che non vogliono mollare le proprie posizioni. Occorre saper passare le consegne, e i giovani non hanno solo bisogno dell’esempio ma di vere opportunità. Ci sono dei ragazzi che ci credono, che vogliono farsi avanti, ma non hanno le possibilità per farlo. Ecco, dobbiamo spezzare questo circolo vizioso, dare delle credibili possibilità di accesso alle risorse. Ma serve anche lottare contro un sistema che lega il valore dell’opera d’arte esclusivamente al prezzo. Un atteggiamento di questo tipo è una pugnalata per le ambizioni dei giovani artisti di talento. In parallelo, occorre ridare valore allo studio. In Italia la cultura artistica e musicale non si insegna, o si insegna in modo superficiale. È inutile constatare la mancanza di basi – artistiche e letterarie – se poi non si interviene per invertire la rotta. Le opere d’arte, i libri, la musica costituiscono un bagaglio fondamentale per l’essere umano, per il cittadino. Altre grandi nazioni lo hanno capito. Noi ancora no».

Durante l’intervista

Torniamo al concetto di ‘progetto’. L’arte, la cultura possono essere la base di un progetto?

 «Sicuramente sì. Basta pensare ai manifesti delle grandi correnti artistiche come il surrealismo, il dadaismo, il futurismo. Tutto partiva da un progetto, da regole che identificavano l’appartenenza. L’arte, quando è chiamata a raccolta, quando i tempi segnano un passaggio propizio, risponde sempre. E poi ricordiamoci che è il progetto ‘che fa l’uomo’. In ogni epoca noi riconosciamo la vera civiltà quando c’è un progetto. Allora, grazie al progetto, tutto accade. Ma anche ogni uomo deve essere un progetto, ed è indispensabile nel suo percorso. Quando incontriamo e conosciamo qualcuno dobbiamo sempre chiederci qual è il suo progetto».

E quale potrebbe essere un progetto per Torino?

«Serve uno scatto, un momento forte per interrogarsi sul futuro della nostra città, un progetto di cultura unitario e identitario. Io penso a una grande fiera universale sulla Torino del futuro, a un momento condiviso di ‘orgoglio torinese’. Obiettivo di questo programma, ‘fare il punto’, partendo dalla nostra storia per guardare avanti. Occorre riproporre e ripresentare le nostre eccellenze artistiche di ogni epoca, raccontandole, valorizzandole e, soprattutto, mettendole in connessione col futuro, creando un ponte attraverso i secoli e le generazioni. Dalla consapevolezza delle nostre radici, della nostra storia, si può ripartire guardando avanti, immaginando quello che ci aspetta e cosa vogliamo».

Sei sempre stato considerato un artista trasversale, in grado di occuparti non solo di pittura, ma anche di teatro, cinema, arredo urbano e pubblicità. Sei tra i pochi a lavorare con le aziende. Come riesci a sintonizzarti con il mondo dell’imprenditoria?

«Mi viene spontaneo e mi piace moltissimo. Pensa che, nella maggior parte dei casi, sono loro a cercare me e non viceversa. Si tratta di intervenire con rispetto, di capire la propria missione e applicare la propria creatività a soggetti diversi. Tutto molto stimolante. Ci sono esempi fortunatissimi di artisti d’avanguardia che hanno fatto storia: Depero con Campari, moltissimi americani degli anni Sessanta, Warhol su tutti. In alcuni casi ho avuto la possibilità di ‘rinfrescare’ e riproporre loghi celebri, forse il segno di massima fiducia da parte del committente».

Accanto alla scultura di Joseph Beuys

Intervenire su tutto e ovunque, con il tuo segno forte e identitario. Ma come si pone Ugo Nespolo di fronte alla creatività?

«L’artista non è un sacerdote di una messa che conosce solo lui, ma deve sporcarsi le mani e intervenire, contaminarsi con quello che lo circonda. Io penso che sia anche possibile l’arte degli ascensori, e mi piacerebbe dipingerli tutti. L’alternativa è aggirarsi tra musei rarefatti, asettici, in assoluto noiosi. Sono contrario al pauperismo, alla tristezza obbligata dell’artista che deve vivere povero e male in arnese. Stereotipi da cancellare. Noi abbiamo un compito e, come dicevo, un progetto. Sartre affermava che l’artista aveva solo due alternative: ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli».

(Foto: MARCO CARULLI e ARCHIVIO UGO NESPOLO)