Torino, inverno 2020
Ci sono vari modi di essere capitano, persino quello di fare carriera militare. I capitani dell’esercito per me sono sublimati, almeno in tempo di pace, da una frase in una commedia di Lucia Poli, sorella dell’immenso attore fregoliano Paolo (credo di ricordare il titolo: ‘Giallo!’). Si riferisce genericamente, la frase, ai militari graduati, io me la spupazzo pensando soprattutto ai capitani: «In tempo di pace gli ufficiali non hanno niente da fare, ma si alzano prestissimo per farlo». Più o meno come l’intellettuale che, secondo il mio amico Marcello Marchesi (ricordate ‘Il signore di mezza età’?), «non ha niente da dire ma lo deve dire». In ogni caso la parola capitano, comunque pronunciata, anche classicamente con regolare accento tonico sulla seconda ‘a’, non mi seduce, non mi sconfinfera, come direbbe Totò.
La penso una sorta di pongo lessicale. Càpitano, accento sulla prima ‘a’ e poi avanti in discesa, cioè càpitano nel senso di ‘accadono’. Capitanò, passato remoto del verbo capitanare: lui capitanò il plotone (magari per una fucilazione, sai che bello). Capìta-no, più o meno un ‘non capita’ in dialettaccio milanese. E ancora il testamento dell’alpino, canzone struggente dove si parla dell’assegnazione al capitàno di una parte del corpo del morto. O ancora il sublime «O capitàno! Mio capitàno!» del poeta nel film ‘L’attimo fuggente’. Dovrebbe, nello specifico del mio mestiere di giornalista sportivo, interessarmi il capitanato nello sport, ma in realtà non sono mai riuscito a prenderlo sul serio. Il fatto è che quando si è visto in azione, e per tutte le partite giocate a Torino nel dopoguerra, capitanando il Toro, Valentino Mazzola (forse un mio pesante primato anagrafico), ogni altro capitano è comunque piccolo uomo. E quelle magie, le maniche rimboccate, il quarto d’ora granata, musica della tromba di Bolmida, sono immani e irripetibili, lo sa chi c’era, persino l’iperjuventino capitano bianconero callido Giampiero Boniperti fratello mio lo ha ammesso, fra l’altro individuando in Giorgio Ferrini l’erede di Valentino capitano granata.
Certo che sono condizionato da capitan Valentino, che visto lui visto tutto e di più, ma è una colpa?
Forte è il sospetto che la fascia da capitano nel calcio sia spesso attribuita soprattutto per proteggere, facendo sì che l’arbitro almeno un poco ascolti il portatore di essa quando protesta a nome suo o dei compagni, senza subito trafiggerlo con il giallo o addirittura con il rosso, un calciatore particolarmente pregiato. Assurda poi mi pare la scelta del portiere, sia pure sommo, come capitano: quando per parlare con l’arbitro deve farsi metri e metri di corsa, magari per tutta l’estensione del campo, andata e ritorno pericolosamente. In altri sport il capitano spesso ha valenza semicomica: si pensi ad esempio al tennis, la Coppa Davis. Una volta, in occasione di una sfida solenne in un posto lontanissimo dall’Italia (io c’ero), seppi che quei tennistacci si divertivano a intasare delle loro flatulenze corporali l’auto ufficiale del team quando era in arrivo il capitano anzianotto, lo scrissi, fu pubblicato e i gaglioffi si arrabbiarono con me, che praticavo il giornalismo ormai finito di andare/vedere/raccontare.
Restando al calcio, che è il gioco più bello e lo sport più banale del mondo, segnalo il minuetto dei due capitani quando con l’arbitro assolvono al rito della monetina: alla fine dello sketch si danno pacche teatrali sulle spalle e stanno già pensando a come fregarsi l’un l’altro. Certo che sono condizionato da capitan Valentino, che visto lui visto tutto e di più, ma è una colpa? E poi non riesco a non ridermi dentro quando penso a una forma speciale di capitanato a priori nobilissima, quella che sfocia nel portar la bandiera, anche e soprattutto ai Giochi olimpici, l’estremità bassa del pennone sulla pancia. Mi viene in mente quel comico (Carlo Dapporto?) che alla visita medica pre servizio militare mostrava un ombelico quasi mostruosamente bassissimo sul ventre, gli chiedevano cosa facesse nella vita e lui: il portabandiera.