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Valentino Mazzola

In campo col grande capitano granata

di Gian Paolo Ormezzano

Primavera 2019

A 100 ANNI DALLA NASCITA DI VALENTINO MAZZOLA GIAN PAOLO ORMEZZANO, L'UNICO GIORNALISTA CHE HA ASSISTITO A TUTTE LE PARTITE DEL GRANDE TORINO AL FILADELFIA, E CHE QUINDI NON LO HA MAI VISTO PERDERE, CI RACCONTA IL MITO, L'UOMO E IL CALCIO CHE NON C'È PIÙ

Premessa doverosa, dolente per le ossa, spero utile al cuore: io parlo e scrivo del Grande Torino e di Valentino Mazzola come il tifoso che fui (e sono) e come il giornalista che fui in un giornalismo che fu, non come il giornalista attuale che mi dicono io sia ancora. Io, adesso, ologramma motivato da altri ologrammi: e cioè giornalista teledipendente in un mondo di tutte immagini servite o comunque mediate dal video, ahimè spesso anche con commenti e dettagli assortiti. Io cioè mi sento sempre un penultimo (non mai ultimo, spero), mohicano della tribù degli ‘io c’ero’, strani testimoni in via di estinzione, nello sport tifosi che guardano (guardavano) con i loro occhi e casomai con quelli sempre più deboli della fantasia, giornalisti che vanno (andavano) a vedere annotare, scrivere cioè raccontare. Nessun merito, sia chiaro, casomai tanta fortuna.

Il capitano non era un capitano, perché non comandava ma casomai convinceva, suggestionava, ipnotizzava, tutto ma senza dare ordini

In un film comico un giovane scienziato vuole sapere dal vecchiardo del villaggio il segreto della sua longevità, e quello rivela: «Essenziale per diventare centenario è essere nato cento anni fa». Una volta lo scrissi sulla prima pagina de La Stampa, a giustificare una mia presenza in un dato evento: «Per squallide ragioni anagrafiche, io c’ero». Ebbi successo. Per squallide favolose ragioni anagrafiche, ho visto nel dopoguerra – dai miei dieci anni – tutte le partite giocate a Torino dal Grande Torino (mai una trasferta, a casa mancavano i soldi). Questo vuol dire che non ho mai visto Mazzola e i suoi perdere.

Il Grande Torino in trasferta in Brasile

© Ezio Loik

Ha sempre funzionato il patto con mamma e papà: mai un giorno di assenza da scuola, mai una partita del Toro ‘saltata’. Dal 1945 al 1949: ero andato a scuola nonostante la febbre anche quel mattino di quel 4 maggio, dormivo sempre al fondo della cucina, casa stretta e noi in troppi, e al contrario dei giorni ‘sani’ quel pomeriggio non avevo sgombrato, a letto in cucina seppi da papà piangente che avendo visto e stravisto Mazzola, quello in campo, nonché avendo quasi toccato un altro Mazzola tutto mio (ne dirò), ero ormai obbligato a diventare davvero giornalista, come farneticavo da che, scuola elementare, facevo temini ai compagnucci in cambio di pastigliette alla menta.

Valentino Mazzola prima di una gara di campionato

Giornalista magari anche per onestamente mettere per iscritto che certe cose grandi non ce la facevo a raccontare bene, ma che ce la mettevo proprio tutta: forse mi sono illuso (e ho illuso) di essere diventato giornalista vero, sicuramente quelle provvide mentine mi hanno aiutato a non fumare mai. Faticosamente, da giornalista antiquo che proprio non vuole sapere che i suoi residui lettori hanno già visto tutto ergo sanno tutto, approdo a Valentino (oh capitano, mio capitano), per sentenziare che senza di lui non ci sarebbe stato Grande Torino, così come senza Grande Torino non ci sarebbe stato lui. Perché? Perché sì. Cito Catullo, che era bravino: «Quare […] nescio, sed fieri sentio» (non so perché, ma sento che accade). Ho parlato di Valentino a tanti, essenziali i figli Sandro e Ferruccio buonanima (con Sandro dialoghi assai più lunghi), Mariangela e Stella, cugine prime dei due e sacerdotesse del culto di Mazzola a Cassano d’Adda delle radici, Carla cara dolce vedova di Maroso alla quale dissi da sempre che il suo uomo giocava meglio di Mazzola, giocava come due Pelé insieme, ma non era un Mazzola.

Con il figlio Sandro

A tanti più o meno ho cercato di spiegare che, se si arrivasse a definire compiutamente Valentino com’era, sarebbe la fine fiabesca del calcio, nel senso che gli si proporrebbe un modello persino assurdo nella sua irripetibilità: un coacervo anormale di cose normali. Eggià. Il capitano non era un capitano, perché non comandava ma casomai convinceva, suggestionava, ipnotizzava, tutto ma senza dare ordini.

Valentino Mazzola con la maglia della Nazionale

Non aveva giocate magiche (anche se Boniperti, per giustificarsi nelle sue debolezze verso di lui, gli attribuiva doti divine). Non saltava di testa più di ogni altro, anzi, però di testa spesso era imbattibile. Non aveva un fisico mostruoso, anzi era un modesto tracagnotto. Non sempre correva abbastanza. Talora correva maluccio, quasi sgraziato. Sbagliava palloni, talora partite. Non diceva che aveva due mogli e sognava di andare a vivere a Milano, faceva finta di volerlo per via, lui lombardo del calcio, di Inter e Milan, e invece lo voleva per stare tranquillo vicino a casa e guadagnare di più.

Con Giuseppina Cutrone

Era una somma di ‘non’, di ‘meno’ che, si sa, algebricamente tutti insieme fanno un gigantesco più. «Non si può essere un giocatore utile a una squadra di calcio come e quanto lo fu Mazzola per il Toro», mi ha sempre detto Giampiero Boniperti, fraterno amico mio, che gli giocò contro, lo patì, lo vide stoppare di tacco sulla linea della porta un suo tiro a gol sicuro e abbassò scornato e triste il capo per un nanosecondo e Valentino era già laggiù, che segnava nella porta della Juventus. Giampiero che ha rivisto un qualche po’di Mazzola in Ferrini, Giampiero che ha amato il Grande Torino e patito qualunque Torino quantunque comunque dovunque. Non sono riuscito a spiegare bene tutto il mio Valentino neanche a Tomà, che gli ha giocato al fianco tante volte e mai è riuscito a spiegarlo bene a me. Volevo parlarne con Vittorio Pozzo quando, anno 1964, gli fui giornalista davvero a fianco nei Giochi olimpici di Tokyo. Pozzo amicone di mio papà però in famiglia mai approdato per me se non come icona. Ma allora Pozzo era un giornalista persino più vecchio e stanco di quanto io lo sia ora. Vado avanti con Valentino nella mia affettuosa, devota anatomia calciogiornalistica. Bacigalupo aveva più fantasia, Ballarin aveva più solidità, Maroso aveva più classe pura, Castigliano aveva più tiro, Rigamonti aveva più utile tignosità di gioco, Grezar creava migliori geometrie, Menti aveva un tiro decisamente superiore, Gabetto teneva assai più estro, Loik correva assai di più e sempre bene, Ossola aveva un senso tattico superiore (e il gioco potrebbe andare avanti con le riserve, che in genere erano grandi calciatori).

Dino Ballarin, Ezio Loik, Aldo Ballarin e Valentino Mazzola con alcuni tifosi

Ma nessuno era Mazzola, e spesso Mazzola era come tutti quelli lì messi insieme, e magari qualcosa di più. Il calcio in fondo è pieno di misteri, lo scriveva anche Gianni Brera, che raramente mi ha preso sul serio come giornalista ma sempre mi ha voluto bene e stimato come amico e compagno di strada: e Mazzola era un mistero, e i suoi compagni, quando firmavano il sì nel contratto (ho visto, ho toccato il taccuino piccolo e nero, quello con l’accordo, custodito notarilmente, ma soprattutto religiosamente, da Ferruccio Novo), sapevano perché a Valentino toccassero premi doppi, intuivano il perché. Comunque il Mazzola più speciale di tutti è mio, solo mio, e scusate la presunzione, ma a lui devo una vita.

Dunque ero un ragazzino di tredici anni e per la prima volta i miei mi lasciavano andare al cinema da solo, o meglio con Giorgio, il mio compagno di classe e anzi di banco forzutello assai. Eccomi a vedere ‘Chiamate Nord 777’, poliziesco  made in USA, con James Stewart, ricordo, oh se ricordo. Spettacolo pomeridiano in quello che era il Cinema Augustus di Torino, pieno centro in piazzetta CLN, che però chiamavamo ancora piazzetta delle Chiese, quella con le statue di Po e Dora, a metà di via Roma, proprio dove ha fatto cominciare il suo capolavoro ‘Profondo rosso’ Dario Argento: Malcolm McDowell attraversa a piedi quella piccola piazza per andare in una casa degli orrori. Il film, allora. Ricordo i titoli di testa, i piedi di qualcuno che sale i gradini di uno scalone, è quello che porta al palazzo di giustizia (primo piano) di qualche città, una donna sta lavando la scala. Stop. Mi accorgo che alla mia destra (alla mia destraaa!) è seduto Valentino Mazzola, solo, attento al film. Valentino Mazzoolaaaa! Lo guardo, lo fisso, lo trapano per tutto il primo tempo. Nulla vedo del film. Intervallo, luci in sala, vendita di gelati chiamati pinguini. Lui ‘mi guarda’ e mi dice: «Ragazzino, se adesso vedi un poco di film è meglio per te e per me». Mi alzo, chiedo a Giorgio ignaro di uscire con me. Voglio uccidermi anche se non so bene come farlo, poi penso che il mio capitano è stato buono con me, un tenero rimbrotto e basta, e mi assegno di continuare la vita che in fondo lui mi ha generosamente lasciato viva. Farò il giornalista anche per scrivere di questo: voilà.

Valentino Mazzola nell’ultima partita contro il Benfica, 3 maggio 1949

Penso a quel Mazzola, a tanto altro mio Mazzola, anche quello che in fondo aspettava me, e si capisce soltanto me, nel suo negozio di articoli sportivi, dove andavo a far gonfiare il pallone. Penso ai campioni di allora, lui su tutti, e a quelli di adesso, algidi e confezionati e cresi e con ottocento mogli. Penso anche al quarto d’ora granata, alla tromba di Bolmida capostazione e alle maniche rimboccate del mio capitano, e soprattutto a quando mio padre mi portò tardi (pennichella lunga) al tempio Filadelfia, era già 3 a 0 per la Lazio, scoppiai in lacrime, papà mi disse «tranquillo, ci pensa il nostro capitano»; finì 4 a 3 per il Toro, gol finale di Mazzola e sennò di chi? E mi vergognai di avere minimamente dubitato. E volete che non facessi il giornalista con l’urgenza immanente di raccontare queste e altre cose? Pessimo giornalista, massì, giornalista tifoso di parte, giornalista di ricordi datati ergo troppo nostalgici, giornalista ora del pietoso patetico ‘ai miei tempi’. Ma, sempre e quindi anche qui, impegnato a tentare di raccontare decentemente e caldamente cose comunque bellissime, che mi sono accadute e che sarei gran fetente a tenere per me. Attenzione: c’è, si capisce, tanto altro Valentino Mazzola, qualcosa io stesso scrivo di lui altrove su questa stessa pubblicazione. Voglio solo segnalare che ascrivo alla sua magia l’aver fatto sì che la sua vicenda biconiugale, contorta assai per quei tempi, mai ‘scendesse in campo’ con lui. Pochi anni dopo la sua morte vivevo da giornalista, e in toto, la vicenda di Fausto Coppi e della Dama Bianca. Il Campionissimissimo del mio ciclismo era lui pure magico di magie sue, ma non riuscì a togliersi di sopra la testa quella nuvolaccia di pensieri pesanti e assortiti. Magia speciale di Valentino, e sennò di chi?

(Foto di ARCHIVIO SALVATORE GIGLIO e LAPRESSE)