Sfogliando il menù di Felicin Alla Consolata (piazza della Consolata 5), cattura la nostra curiosità una voce: tajarin di Felicin, tagliati al coltello, con ragout di carne. In un relativamente recente articolo abbiamo già parlato di sua maestà il tajarin, e proprio lì abbiamo annunciato, anzi accennato, il tema del ragout, e del perché si può trovare scritto in questa maniera.
Premessa: non è un errore, ma una variante, ben più antica del più classico “ragù”, che qui da noi, sui menù, troveremo in ampia superiorità numerica nominale.
Per comprendere questo bivio linguistico occorre fare un deciso passo indietro e verso i nostri cugini francesi che, come noi, amano così tanto cucinare e mangiare. Il termine ragôut deriva dal francese, è un’antica crasi che unisce re e gustus (dal latino), e abbrevia la locuzione “remettre en appetit”, ovvero rimpinguare l’appetito, o addirittura mettere gusto. Non a caso da sempre i francesi usano il termine ragôut per riferirsi genericamente a stufati di piccoli pezzi di carne, pesce o verdure, intesi come piatti unici o come accompagnamento per riso o polenta. Un’idea molto lontana dalla nostra tipica concezione di ragù: carne tritata fine usata come condimento per diverse tipologie di pasta.
Come muta dunque il termine da ragôut a ragù? Ovviamente la risposta non è né univoca né certa, e si intreccia a quei meccanismi di mutazioni linguistiche (anche leggerissime) che nei secoli si sono avvicendate con le connessioni dei popoli.
Non è un errore, ma una variante, ben più antica del più classico “ragù”
Il primo step, forse il più semplice da intuire, ha riguardato l’eliminazione dell’accento circonflesso, di per sé poco utile e “troppo francese”; che ha lasciato spazio, specie nel vicino Piemonte, all’epoca regno dei Savoia, al più intuitivo ragout, letto ancora perlopiù alla francese, con l’accento finale dunque (ma non sempre).
È proprio in questo momento storico che nelle valli piemontesi si diffonde con particolare decisione l’utilizzo del termine ragout, che quindi finisce a decorare sulle tavole nostre e dei nostri avi (e dove se no) tajarin e agnolotti (qui, un giorno, scriviamo della sfida tra sugo d’arrosto o ragù come principe dei condimenti).
E ragù? Da dove spunta? In realtà è di gran lunga la più recente di queste trasformazioni. E risale agli anni ‘50 e ‘60, con la divulgazione della lingua italiana attraverso i programmi della TV “di Stato”. Nel suo libro Italiani si diventa, Beppe Severgnini, divise gli italiani tra vecchi e giovani in base alla scrittura: ragù per i giovani, ragout per i più navigati. Poesia food nazionalpopolare, roba da Mario Soldati e pranzi lungo gli argini del Po del primo primo grande divulgatore enogastronomico italiano. Ma questa è un’altra storia.
Il ragù sarebbe poi diventato appunto bolognese, sardo, napoletano… Sempre con struttura simile, ma con ovvie differenze culturali e territoriali. In realtà tuttora, i colti, continuano a utilizzare la parola ragout per indicare spezzatini e stufatini di carne. È anche un modo per legarsi a una certa tradizione e una specifica voglia di trattare il cibo (e la sua storia) con affetto e non-superficialità.
Piccola curiosità: in quelle bizzarre avventure di reazionarie ri-nomenclature, durante il fascismo (dopo i cognomi trentini) venne proposta anche la riconversione del termine ragout (troppo transalpino) in un cacofonico “ragutto”, che per fortuna non ha mai preso piede…
Nel mentre che pensavamo a tutto questo, seduti agli splendidi tavolini di Felicin, alla sacra ombra della Consolata, sono arrivati i nostri tajarin al ragout. Una meraviglia. Potete anche portarveli via freschi, in una scatola bellissima, e riproporveli a casa in autonomia. Anche se mangiarli in tale dehors ha veramente una marcia in più. Insomma, ragout o ragù, buon appetito!