Torino, inverno 2021
Il tifo è tornato a riempire di suoni e colori le gradinate. E rinascono i ricordi e le nostalgie: allo Stadio Comunale, in curva Filadelfia, con il mio amico Giancarlo. L’ansia per la partita, la bandiera sventolata con gioia, la formazione mandata a memoria, l’articolo del quotidiano sportivo letto e riletto (il mio Tuttosport, il mio Caminiti), gli ultimi riti consumati.
E poi, ecco, nel lampo, i giocatori entrare sul prato verde. Ed era un frastuono di felicità: in attesa di quel tiro imparabile, di quella parata impossibile, del guizzo di Pietruzzu, l’idolo sempre e per sempre. E la festa infinita per il gol. E, di colpo, come un retaggio, riecco i versi di Umberto Saba: «La folla – unita ebbrezza – par trabocchi / nel campo. Intorno al vincitore stanno, / al suo collo si gettano i fratelli. / Pochi momenti come questo belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere». Erano i tempi dei sostenitori in giacca e in cravatta o con le loro nobili tute da operai della FIAT Mirafiori; parlo spesso di quelle stagioni con Pier Carlo Perruquet, storico presidente dello Juventus Club Torino di via Bogino all’angolo con via Po.
E ci prende, ogni volta, il rimpianto per quei giorni, dove il pallone era una consolazione, una speranza, una luce chiara sul nostro presente e sul nostro futuro. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini, il nostro scrittore corsaro, che fu ala destra, il ruolo dei fantasisti e dei sognatori: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo. Il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo». PPP disse queste cose nel 1970.
Il tifo è tornato a riempire di suoni e colori le gradinate.
E rinascono i ricordi e le nostalgie: allo Stadio Comunale, in curva Filadelfia, con il mio amico Giancarlo.
L’ansia per la partita, la bandiera sventolata, la formazione mandata a memoria.
Ed era un frastuono di felicità
Basta, basta per davvero, con il football senza sostenitori, maledetta pandemia. Perché, come intuì Eduardo Galeano, «giocare senza tifosi è come ballare senza musica». Abbiamo patito quel “silenzio d’echi”, con la partita trasformata in un malinconico videogioco. Era il tempo della disfida senza anima, del grigio dominante, di un vuoto assordante. Oggi è ritornata la passione, rivivono le emozioni.
Mi sovviene Mario Soldati, il suo America primo amore. Lo scrittore è nella Grande Mela, ma la mente corre a Torino, alla sua Juve che sta per giocare: «È una domenica di marzo. New York. Mi appoggio al davanzale della finestra nel vento e nel sole, guardo Manhattan coperta di neve scintillante, che il vento spazza qua e là in sbruffi e in piccoli mulinelli, sui tetti, nei parchi, ai crocicchi delle vie. Oggi la mia squadra giocherà una grande partita, lo sento. Il campo, liberato dalla neve soltanto questa mattina, sarà ancora pieno di pozzanghere. Lontane, commiste alla luce di un’atmosfera ventosa, le Alpi. I bianconeri entreranno di corsa, nell’urlo della folla. I cari nomi voleranno per l’aria con il nevischio: Caliga, Biga, Combi, Mune, Orsi… alò, alò, alò Juventus, alò Juventus». Questo è amare un club, anche in lontananza.
Il tifo non conosce barriere o distanza, il tifo rappresenta la nostra giovinezza ripresa per mano. Un sogno che continua, luminoso e ingenuo.
Leggi le coverstory di Dybala e Ronaldo