Home > People > Interviste > Gianni Oliva: «Quella sera incredibile del 2006»
18 febbraio 2006, sabato sera: mi muovevo a fatica tra via Po e piazza Castello, in un’atmosfera di inverno e di festa, tra la folla richiamata dalla notte bianca olimpica: concerti agli angoli delle strade, musei e negozi aperti sino al mattino, attori su palchi improvvisati. Da assessore alla Cultura della Regione promotore dell’evento, mi compiacevo per le decine di migliaia di persone che si accalcavano in strada; da cittadino, torinese da sempre, vedevo una città che non avevo mai visto.
Come tanti, ero cresciuto nella Torino operaia della cultura monoindustriale, con il modello fordista di fabbrica che permeava il tessuto urbano e i comportamenti sociali; poi avevo vissuto la città degli anni di piombo e di tritolo, con le esasperazioni della conflittualità politica; poi ancora la città degli anni Ottanta, con il declino industriale e la drammatica riduzione dei posti di lavoro. Quella sera, invece, ho capito che c’era una Torino nuova, una Torino che era stata costruita nel decennio precedente e che le Olimpiadi aiutavano a “vedere”.
In tanti, in quei giorni di riflettori, lo abbiamo capito. Come altre volte nel passato, Torino si era “reinventata”: tra il 1993 e il 2001 le giunte Castellani (o “giunte dei professori”) avevano promosso una nuova visione postindustriale della città, sintetizzata nello slogan Turin – always on the move, puntando su tre direttrici: la riorganizzazione dell’area urbana con il miglioramento delle infrastrutture, la valorizzazione della città come meta turistica, lo sviluppo di un gruppo di aziende dinamiche operanti in settori di nicchia.
A questo progetto l’aggiudicazione delle Olimpiadi invernali 2006 aveva dato risorse e visibilità, al posto dei capannoni abbandonati alle sterpaglie erano sorti quartieri eleganti (le “spine”), era stata realizzata la nuova stazione ferroviaria, si erano avviati i lavori per ampliare la rete metropolitana.
Torino, che non era più la Detroit italiana, si scopriva “città bella”. Dopo le giunte progettuali dei professori (e di politici “visionari” di alto profilo come Fiorenzo Alfieri), sono venute amministrazioni che hanno avuto un grande merito e un evidente limite: il merito di creare consenso attorno a quel progetto e far sì che Torino penetrasse nell’immaginario collettivo (prima di tutto dei torinesi) come una grande città a misura, bella da viverci; il limite di non aver saputo lavorare a un nuovo piano strategico che guardasse al futuro.
Indipendentemente dai giudizi sugli ultimi anni, i risultati sono evidenti: una città “sospesa”, un’identità che stenta a svilupparsi, una sensazione diffusa di stasi. Ripartire sarà compito della prossima amministrazione, qualunque essa sia (anche se l’assenza di riferimenti alla cultura e all’istruzione dal dibattito elettorale non sembra di buon auspicio…).
Ecco uno dei contributi delle cinque simboliche voci, ognuna delle quali porta sulle pagine di Torino Magazine un proprio aneddoto, una storia personale che accompagna lo scorrere di queste 150 cover e di trentatré anni di città.
Leggi gli altri quattro contributi: Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Beppe Gandolfo, Paolo Griseri, Sara D’Amario
Leggi 1988-2021: 150 cover di Torino Magazine