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Sentenze granata

di Gian Paolo Ormezzano

Il mio esordiente (granata)

Torino, speciale 2021

Quando ricoprivo, dal 1974 al 1979, il ruolo meno adatto al giornalista itinerante che ero, quando insomma mi inchiodarono alla scrivania di direttore di Tuttosport – io allergico all’esercizio di ogni forma di potere, io incapace di impartire ordini e di assegnare mansioni e incombenze, io evangelicamente, nel senso anche e soprattutto di ingenuamente, intento ad assecondare le richieste più furbastre, opportunistiche ed egoistiche dei colleghi – mi accadde di essere coinvolto in un seriosissimo referendum, fra grandi firme vere o presunte, per stabilire quale fosse la squadra di calcio ideale, assemblando i più grandi di tutti i tempi. Stilai, con qualche aiutino di qualche collega, una lista all time secondo me davvero di alta stazza.

Non c’era ancora Maradona, c’era già Pelé, c’erano Di Stefano e Cruyff, c’era Rivera, e si capisce c’era Valentino Mazzola, accompagnato, fra altri di quel Toro, da Maroso e (a fra poco…) non solo. Sbilanciatissima in avanti la mia formazione, ma in porta Zamora tramandatomi da papà, un grandissimo, e in difesa Beckenbauer e Varela l’uruguagio mondiale 1950 e Facchetti. A centrocampo (allora ci credevo, ora comincio a pensare che il rinvio lungo di un portiere magari lo sorvola, lancia gli attaccanti e ci risparmia tanto noioso palleggio in spazi brevi) avevo messo un quasi sconosciuto, uno molto mio nel senso di uno del Toro, e del Toro di Superga.

Nonostante che la mia formazione fosse la negazione del suo adorato difensivismo, il grande collega, buon amico e grosso guru del gioco italiota di rimessa, mi mandò via telex queste parole: «Se hai messo questo giocatore nell’undici ideale vuol dire che cominci a capire di calcio». Curioso: anni dopo Sívori mi disse più o meno le stesse parole quando mi espressi bene su di un certo Catanese, sua riserva al Napoli, uscito di scena dopo poche partite. Prima vi dico chi era il collega: si trattava di Gianni Brera, chi sennò? E adesso faccio nome e cognome del mio uomo: Rubens Fadini, morto con i com- pagni del Grande Torino nello schianto di Superga il 4 maggio 1949. Avrebbe compiuto i 22 anni il 1° di giugno. Era nato a Jolanda di Savoia, piccolo comune della Bassa Ferrarese, e Brera pensava che ogni nativo della Bassa (lui pavese, il meglio del meglio del meglio dei plat pays) in qualche modo riassumesse dentro di sé (e se calciatore esaltasse in campo) le doti primarie di Leonardo più Einstein più Newton più Voltaire più Marconi più Fleming messi insieme. Di crescita poi Fadini era milanese, e questo per Brera rappresentava un “meglio ancora”, lui stesso essendo stato un bassaiolo padano, nato sul Po ma giornalisticamente cresciuto a Milano.

Chi si sostituiva a Mazzola senza farci sospirare era automaticamente un dio. Fadini era scuro di capelli, serio di aspetto, geniale di trame di gioco semplici come la Odi Giotto, era artista e geometra. Fu amore a primissima vista

Fadini Rubens (il nome del grande pittore fiammingo nato in Germania) è il mio esordiente preferito fra i tanti bravi che ho battezzato. Non so perché, sento che. Debuttò ufficialmente nel Torino in quel campionato 1948-’49 il 7 novembre 1948 in casa, 1 a 0 sulla Lazio. C’ero, mi colpì: io soffro felicemente la sindrome di Stendhal, davanti ai grandi quadri lacrimo e ho tremiti di febbre, quella volta fu una cosa così. Giocò dieci partite in granata, segnando un gol nel 4 a 1 sul Milan. Cinque vittorie, cinque pareggi, sconfitta mai. Il suo esordio vero alla grande notorietà porta la data del 30 aprile 1949, Milano, Inter – Torino 0 a 0 e quinto scudetto consecutivo cucito idealmente e non solo sulle maglie dei miei campioni. Fadini sostituiva alla grande Mazzola febbricitante. E chi si sostituiva a Mazzola senza farci sospirare era automaticamente un dio.

Fadini era scuro di capelli, serio di aspetto, geniale di trame di gioco semplici come la O di Giotto, era artista e geometra: come lui, dopo, in granata solo Romano Fogli. Lo vidi, ripeto, per la prima volta quel 7 novembre 1948, quando cominciò col Toro partendo dal niente di una squadretta aziendale di Milano, lo vidi e rividi al Fila dove non mancai nessuna partita del Toro dopo la Liberazione. Fu amore a primissima vista, poi arrivò il dolore, a ondate senza risacca. E non ho fatto in tempo a sapere il perché di quel Rubens.

 


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