Sì, è vero, è molto bello, ma poi c’è tutto il resto da scoprire su di lui. Arrivo sul set allestito a Palazzo Nuovo, sede delle discipline umanistiche dell’Università di Torino, per trascorre una parte della giornata al seguito delle riprese e realizzare un’intervista a Raoul Bova, protagonista della fiction ‘Giustizia per tutti’. Con me, munito della macchina fotografica come di un kalashnikov, Franco Borrelli, che ha il compito di immortalare il backstage, i suoi affanni e ogni attesa. Bisogna viverla, l’atmosfera di un set, per capire dove risiedono davvero il fascino e la dannazione di un luogo che tanto ricorda il purgatorio.
‘Giustizia per tutti’ è stata girata in luoghi di Torino diametralmente opposti tra loro. Da quelli più frequentati agli angoli più nascosti della città. Ed è stato bellissimo scoprire quei posti
Per qualche nefasta maledizione, durante le riprese solitamente piove, se è inverno, o fa un caldo torrido se il set è allestito in estate. Mai una semplificazione. A metà strada tra il paradiso, quando tutto fila liscio, e l’inferno, quando le complicazioni si moltiplicano. In un contesto così complesso, Raoul trova il tempo di accogliermi con gentilezza e rispondere alle mie domande.
Il lavoro ti ha portato a Torino. Senti una buona intesa con questa città?
«Ottima. Non è solo una città efficiente, è molto affascinante».
Cosa rende affascinante una città?
«La sua atmosfera e la filosofia che la guida. Torino è una città a ‘dimensione uomo’, quello spazio perfetto che rende possibile il lavoro e la quotidianità».
Dunque, affascinante perché funzionale?
«Non solo. Affascinante per quell’atmosfera che domina le grandi piazze e i piccoli vicoli. Per la grande sensibilità culturale: qui sono nati grandi progetti e molti sono stati accolti. Per la serietà e la riservatezza che la caratterizzano. Non mi sembrano cose da poco…».
Come può conoscere a fondo una città un attore che è costretto a vivere la sua giornata sul set?
«Scherzi? È un osservatorio fantastico. Per esempio ‘Giustizia per tutti’ è stata girata in luoghi di Torino diametralmente opposti tra loro. Da quelli più frequentati agli angoli più nascosti della città. Ed è stato bellissimo scoprire quei posti». Ascolto Raoul parlare e, nel frattempo, mi guardo attorno: attrezzisti, operatori, comparse, attori, fan, fotografi e un regista in apprensione per il prossimo ciak.
Come fai a vedere la città oltre il caos del set?
«Per fortuna c’è il rapporto con la gente, proprio quella che incontri nei luoghi dove finisci per girare. Sai, in teatro è l’applauso il tuo legame con il pubblico. Il set, invece, è un incontro diretto. Senti il calore della gente che ti parla, lo sguardo delle persone quando ti riconoscono. È un’accoglienza che gratifica e compensa in un attimo di ogni fatica. È in quei momenti che ‘scopri’ il carattere della città».
Ma un set, a volte, può diventare un intralcio per la vita quotidiana di un quartiere…
«È vero. Spesso, infatti, ci capita di ricevere lamentele; a Roma, per esempio, città molto grande e trafficata dove un set può complicare ulteriormente la vita. Lo spirito dei romani, però, attenua le rimostranze con simpatia e spesso liquida il disagio con una battuta simpatica: “Andate a lavorà…”».
E i torinesi sono stati pazienti?
«Può sembrare piaggeria affermarlo ora, durante un’intervista per una rivista di Torino, ma è stato proprio così. Abbiamo incontrato una disponibilità che ci ha fatto sentire accolti, e questo non può che semplificare il lavoro di un set».
Il tema di cui si occupa questa fiction invita a una profonda riflessione…
«Assolutamente. Roberto, il protagonista, è un fotografo stimato che viene accusato ingiustamente dell’assassinio di sua moglie Beatrice, avvocato in un importante studio legale di Torino. Trascorrerà dieci anni della sua vita in carcere e, una volta libero, dovrà ricostruire la sua vita, a partire dal rapporto con la figlia Giulia».
Cosa ti ha legato a questo personaggio?
«Il senso di disperazione e quello di determinazione. Roberto passa gli anni della detenzione studiando per laurearsi in giurisprudenza e seguire in prima persona la sua difesa. Un percorso difficile, molto doloroso».
Il ruolo che stai interpretando ti ha portato a entrare in un carcere, la Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, e a recitarvi. È banale chiederti che esperienza è stata?
«Non è una domanda banale, perché la ritengo un’esperienza necessaria nella vita di una persona. Bisogna entrare in un carcere per capire fino in fondo cosa prova un uomo quando sente un portone chiudersi alle sue spalle».
La privazione della libertà?
«Certo, ma non solo questo. Anche l’inadeguatezza che si prova nel ruolo di visitatore. Non sapere nulla delle persone che vivono dentro, della loro storia. Avere la certezza di non capire fino in fondo una realtà così problematica. È una situazione di disagio che può insegnarci molto». Durante la nostra chiacchierata Raoul scopre, nei minuti che precedono la scena da girare, che il piano lavorativo della giornata è stato modificato, così come parte della sceneggiatura. Resto basita. Non posso immaginare quale salto acrobatico debba fare un attore per adattare immediatamente il suo ruolo a una nuova versione della parte, e resto in attesa di una comprensibile, brusca reazione da parte sua. Niente di tutto questo. «Scusa un attimo», mi dice, mentre prende in mano i fogli che contengono la nuova versione della sceneggiatura e inizia a leggere. In silenzio, con pazienza, come chi sa che siamo sempre in parete, quando si lavora, arrampicati a una roccia su cui si scivola continuamente; ma l’obiettivo resta quello di raggiungere la cima e lo sforzo sta nel farlo senza protestare, con tenacia. L’ammirazione cresce. Con un sorriso, e il senso di responsabilità che non gli permetterebbe di interrompere la nostra intervista, torna da me e riprendiamo a parlare.
A proposito di luoghi difficili, hai finito di girare da poco ‘Regina del sud’, serie televisiva di NBC prodotta da Netflix e ambientata a Bogotà…
«Sì, è vero. Una coproduzione tra Telemundo Global Studios e Netflix, con Kate del Castillo nei panni di Teresa Mendoza. Un dramma seriale ambientato nel mondo del narcotraffico che ha ottenuto un grande successo».
Oggi la Colombia e Bogotà vivono sotto assedio. Avete avuto problemi durante il set?
«No, perché nel periodo in cui abbiamo girato la situazione non era quella attuale. Certo, non ti nego di aver provato, in alcuni momenti, un senso di paura. Il fatto di girare scortati ti dà l’immediata sensazione del pericolo e della labilità della vita».
Cosa pensi delle nuove piattaforme che si sono affacciate nel mondo della televisione? Uccideranno il cinema, secondo te?
«No, non credo che Sky, Netflix, Amazon e tutte le nuove piattaforme rappresentino un vero pericolo per il cinema, che non morirà mai. Si tratta solo di adeguare i buoni contenuti e i talenti alle nuove esigenze del mercato. Del resto, tanti altri grandi player come Apple, Disney+ e Warner avranno la loro piattaforma, ma questo darà forza al cinema, non debolezza».
Come potranno davvero convivere?
«Io sono convinto che siano un viatico per avvicinare ancora di più i giovani al cinema. Pensa a tutti i film di grande livello, come ‘The Laundromat’ di Soderbergh, ‘Marriage Story’ di Baumbach e ‘The King’ di Michod, prodotti da Netflix, che sono approdati a un festival internazionale come Venezia. Questo può solo accendere la curiosità dei ragazzi e allontanare il rischio che il cinema diventi un circolo ristretto per cinefili». Marco, fedelissimo assistente di Raoul oltre che amico storico, interrompe l’intervista per rapirlo e condurlo verso il set, dove dovrà girare la scena successiva. Affascinante vedere la duttilità con cui Raoul affronta la sua arena: indossa il giaccone di scena, passa velocemente tra i fan agitati a cui concede selfie, raggiunge il regista che batte il tempo. Parte il ciak, che prevede un dialogo attraverso il lungo corridoio dell’ateneo. La scena verrà interrotta decine di volte. Per un rumore, un’intrusione, un contrattempo esterno che da spettatrice non riesco neppure a percepire. Raoul, paziente, riprende ogni volta con la disciplina di un atleta e la serietà di un professionista. Lo stop interrompe le riprese e lui, cortese, torna per riprendere il nostro colloquio. La prima domanda che mi viene in mente rispecchia una curiosità.
Cosa ti può fare paura?
«Non dominare il caos di un momento concitato come questo, per esempio». Sorride, con la complicità di chi ha saputo eludere una domanda complessa e inopportuna in quel frangente.
Tra le produzioni che ti riguardano c’è la fiction ‘Made in Italy’, prodotta da Canale 5 e Amazon Prime Video…
«Si tratta di una serie composta da otto episodi, ambientata nel mondo della moda a Milano tra gli anni ’70 e ’80, quando la moda esplodeva nel nostro Paese per conquistare tutto il mondo. Fu una vera e propria rivoluzione, culturale e industriale».
Che ruolo interpreti?
«Giorgio Armani, figura a cui sono molto legato e che ha rappresentato un cardine importante nel mondo della moda italiana. A fare da sfondo, uno spaccato della situazione sociale dell’epoca, con i suoi cambiamenti, le sue rivoluzioni e le sue contraddizioni».
Sarà un trionfo di costumi…
«Sì. Pensa che, per la prima volta, una serie TV italiana userà gli abiti originali dell’epoca, forniti da alcune tra le più grandi firme di quegli anni. Importanti case di moda come Valentino, Missoni, Krizia, Albini, Curiel e Fiorucci hanno aperto i loro archivi offrendo preziosi capi e accessori originali».
Dove avete girato e quando andrà in onda?
«La produzione, un progetto di TaoDue (Canale 5) in collaborazione con The Family, si è svolta l’ottobre scorso a Milano. Alcune scene sono state girate a New York e in Marocco. Andrà in onda su Amazon, successivamente su Canale 5».
Grande cast?
«Beh, direi di sì: Greta Ferro, protagonista e modella al suo debutto, Margherita Buy, Marco Bocci, Fiammetta Cicogna, Stefania Rocca, Claudia Pandolfi e tanti altri».
Il tempo stringe, il set preme e sento che i minuti a mia disposizione si stanno esaurendo. Raoul mi saluta con la stessa gentilezza con cui mi ha accolta. Uscendo da Palazzo Nuovo mi accorgo del numero di fotografi di scena che presidiano il set, pronti a catturare il suo sguardo nel profondo. Lui, che non lesina un solo selfie ai fan, schiva quei potenti obiettivi indugiando con lo sguardo a terra. Per quel poco che ho potuto conoscere di Raoul, credo che abbia ragione. Lo sguardo è l’ultimo avamposto dell’anima, e quella va preservata.
(Foto di FRANCO BORRELLI e ADOLFO FRANZÒ)